Nonostante in Italia il suo nome sia poco conosciuto, nel resto del mondo Norman ‘Sailor Jerry’ Collins è considerato il più grande tatuatore di tutti i tempi. Nato in Nevada, ma cresciuto in California, Norman Collins viene a contatto col mondo dei tatuaggi fin dalla tenera età, quando un uomo proveniente dall’Alaska dal misterioso nome di Big Mike gli insegna l’arte che poi egli renderà unica, fondendo la cultura nord americana con la tradizione millenaria asiatica. Alla fine degli anni novanta, a Philadelphia, una serie di estimatori di Collins decide di fondare la Sailor Jerry Ltd., una piccola catena d’abbigliamento nata con l’intento di fondere l’arte del tatuatore con la cultura biker americana. Il progetto funziona così bene, che la stessa azienda, poco tempo dopo, decide di comprare dalla famiglia dello stesso Collins la ricetta del suo leggendario rum, facendolo diventare in pochi anni uno dei più apprezzati al mondo. Questa è la storia di una delle avventure più folli e intense della mia vita di giornalista, quella del mio incontro con Paul Simonon e…Damon Albarn.
Quella mattina, quando il mio caporedattore mi chiamò per propormi un viaggio a Londra per un reportage che avrebbe coinvolto Paul Simonon, un negozio di pelle e un rum che prendevano il nome dal celebre tatuatore Norman ‘Sailor Jerry’ Collins, intuii immediatamente che non si sarebbe trattata della solita conferenza ingessata di mezz’ora, quelle dove l’artista è più scazzato dei giornalisti presenti e dove ogni invitato spera che tutto finisca il prima possibile. Insomma, il classico evento promozionale all’italiana. Pur non sapendo nient’altro della questione, era chiaro che si trattasse di qualcosa di epocale. La questione, tuttavia, non era così semplice come poteva apparire: avevo appena trascorso l’ennesima notte insonne a convincermi del fatto che l’idea di vivere di giornalismo musicale fosse una cosa totalmente folle e quella volta mi ero spinto così oltre che, dopo un giro delle agenzie interinali della città, avevo finito per accettare un posto da magazziniere presso una ditta della zona. La vita, tuttavia, si mostrava ancora una volta come una delle cose meno prevedibili della giornata: un minuto prima mi trovavo in un’agenzia dove un’operatrice mi aveva aiutato ad entrare in una solida azienda che produceva pannelli solari e poco dopo ero proiettato con la mente verso Londra, con tutti i finti propositi di lasciare il mestiere volatilizzati nel giro di pochi secondi. Qui si parlava di destino, London Calling cazzo, non potevo rifiutare la chiamata alle armi, era una questione di principio, di attitudine. The only call that matters. Chiamai immediatamente la gentilissima operatrice per comunicarle di aver appena ricevuto una delle classiche offerte impossibili da rifiutare. Non so perché mi sentivo in dovere di spiegarle il motivo del mio rifiuto, di convincerla che si trattasse dell’occasione della vita: forse con quella telefonata cercavo semplicemente di sentirmi meno in colpa per l’ennesima volta in cui per il rock n roll rinunciavo a crescere. Cancellati i sensi di colpa con un paio di birre, l’obiettivo primario diventava capire di preciso cosa sarei andato a fare a Londra, visto che il programma della due giorni appariva un tantino fumoso sulla carta. Forse proprio per lasciare quel minimo di brivido che una situazione del genere dovrebbe sempre avere, chi ci proponeva il servizio sembrava non voler scoprire del tutto le carte, se non per quanto riguardava le informazioni minime, come la data e l’ora del volo di partenza. Il vero problema era sempre lo stesso: la mia proverbiale mancanza di quattrini, che faceva sembrare anche l’azione più banale, come quella di mangiare fuori per due giorni di fila, un evento in grado di prosciugare completamente le mie finanze. Inoltre, la banca mi aveva appena negato il rinnovo della carta di credito, il che non faceva che aumentare le preoccupazioni nei confronti del viaggio. Insomma, ero stato spesso in giro per l’Europa senza una lira, ma per la prima volta mi ritrovavo a pensare se in quella situazione non sarebbe stato meglio ringraziare per l’opportunità e lasciare che la facesse qualcuno in grado di pagarsi un hamburger senza dover chiedere un prestito al suo migliore amico. Altre due birre e mi convinsi che ero l’uomo giusto per quel viaggio. Le due settimane che mi dividevano dalla partenza volarono senza che altre notizie circa la due giorni londinese giungessero, così mi ritrovai su un volo con un biglietto con il nome dell’autista che mi sarebbe venuto a prendere in aeroporto. Un po’ poco ancora, ma di sicuro un ottimo inizio. Complice una serie di fraintendimenti tra il driver e il mio referente inglese e dopo un’ora nel traffico londinese in grado di farmi perdere l’orientamento, vengo lasciato in una piccola via semi deserta del centro, ipotetica sede dell’albergo in cui avrei dovuto passare la notte. Il problema è che il civico che mi è stato comunicato corrisponde sì ad un edificio, ma a uno di quelli che probabilmente negli anni settanta erano occupati da tossici. Mentre cerco di forzare l’ingresso, vengo chiamato dagli organizzatori, che mi spiegano che la via in cui ci troviamo non è quella dell’albergo, bensì la sede del negozio di pelle cui tutta questa avventura sarebbe girata intorno. Non ci troviamo lontani da Soho, quindi mi sembra ancora più strano il fatto di non essermi mai imbattuto in questo piccolo gioiello ricco di giacche e indumenti ispirati da una parte ai biker d’oltreoceano e dall’altra all’immaginario punk del ’77 .
Ben presto inizio a tirare tutte le fila della questione: è proprio in questo contesto che nasce l’idea di affidare a Paul Simonon l’ideazione di un giubbotto in grado di richiamare in qualche modo tanto lo stile dei Clash quanto l’arte tatuatoria di Sailor Jerry. Se, inizialmente, l’idea che l’uomo che aveva reso la copertina di London Calling una delle più celebri della storia fosse diventato una sorta di stilista per ricchi annoiati mi aveva messo un po’ di timore, trovarmi in questo negozio di quaranta metri quadri insieme a un manipolo di reduci e a un buon quantitativo di birre era stato in grado di farmi vedere la questione da un punto di vista completamente diverso. In qualche modo, si trattava della versione 2.0 dello spirito do it yourself, della semplice attualizzazione di quello che Paul aveva sempre fatto nel corso della sua carriera. Dopo tutto, dei quattro Clash quello da sempre più attento all’aspetto visuale era proprio Simonon, che fin dagli inizi della carriera della band aveva curato da cima a fondo gli aspetti visivi del gruppo, dagli sfondi di scena agli abiti che indossavano gli altri membri. Insomma, se Malcolm McClaren non poteva essere scalzato dal trono di guru dell’iconografia punk, Simonon era sicuramente stato altrettanto importante nel legare per sempre un genere musicale ad uno stile di vestiario, ancora prima che di vita. Con buona pace di Richard Hell e dei Ramones, che facevano quelle cose da molto tempo prima ma a cui, come a Jimi Hendrix esattamente dieci anni prima, era servita la vetrina londinese per diventare fenomeni di costume. Anche se oramai tutto iniziava a prendere una forma, mi mancava ancora un tassello per comprendere appieno la questione: in tutto questo, dove si collocava il rum? Sailor Jerry prima ancora di essere un tatuatore visionario, era un uomo che amava l’alcol, soprattutto quello preparato secondo ricette tramandategli da generazioni. Quella del rum, in particolare, era quella di cui andava più fiero, tanto che gli eredi, intuendone il potenziale commerciale, finirono per venderla alla stessa azienda che ne possedeva il marchio per l’abbigliamento, trasformandola così in uno degli alcolici preferiti dai surfisti di mezzo mondo e, per un paio di giorni, anche nel mio. Non mi è mai piaciuto parlare di cose alle quali non ho potuto assistere, quindi pur conoscendo le abitudini alimentari degli inglesi, non mi ero mai permesso di avallare il luogo comune che li dipingeva come una popolazione di beoni da competizione. La verità è che, senza averci passato ventiquattro ore consecutive, è letteralmente impossibile immaginare la facilità con la quale ogni abitante di quel paese sia in grado di buttare giù qualsiasi tipo di alcolico a qualsiasi ora del giorno, dalla colazione ai party notturni. Non impiegai quindi molto tempo a comprendere che le ore di riposo che separavano un evento dall’altro servivano semplicemente a far riprendere i partecipanti dalle continue sbronze, una sorta di momento sabbatico tra una bevuta e l’altra. L’hotel in cui alloggiavo, poi, non era di nessun aiuto in questo senso: di proprietà di Nicko McBrain degli Iron Maiden, l’edificio sembrava una sorta di parco giochi del vizio più sfrenato, con operatori pronti a servirti di continuo di qualsiasi cosa. Qualsiasi…
Senza contare che la suite assegnatami era qualcosa di esagerato, grande come metà della mia casa e dotata di una spiaggia al centro della stanza atta a contenere una vasca da bagno immensa, sopra la quale era possibile accendere un immenso cielo stellato. Molto kitsch, certo, ma anche la cosa più rock n roll che mi fosse mai capitata nella vita. La seconda giornata, quella più importante e che sarebbe poi culminata con il party di presentazione della creazione di Simonon, non iniziò nel migliore dei modi: la notte precedente aveva lasciato il segno, tanto che in un lampo di lucidità avevo avuto l’idea di puntare la sveglia solo un quarto d’ora prima del ritrovo, riuscendo così a dormire due ore in più e saltando la colazione. Riposare un po’ in vista della nottata successiva mi sembrava un’idea geniale e, d’altra parte, avevo lo stomaco così distrutto che l’idea di sedermi di fronte ad un piatto di fagioli, bacon e uova urtava non poco la mia sensibilità. Tuttavia, quando gli organizzatori mi accolsero con una Guinness tra le mani compresi di aver nuovamente sottovalutato i miei compagni di viaggio e che avrei pagato cara la mia ingenuità. La prima parte di programma prevedeva un tour londinese dei luoghi che avevano fatto la storia dei Clash, il tutto all’interno del tour bus originale della band restaurato per eventi speciali di quel tipo. Un viaggio iniziato a Notting Hill e Portobello Road, proseguito lungo la stralunata Camden e conclusosi a Carnaby Street, dopo aver visitato gli studi di registrazione e tutte le location che avevano visto suonare Joe Strummer e compagni nella City. Dopo un pranzo nel pub in cui Amy Winehouse amava passare le proprie serate alcoliche e un paio di gare di cuba libre indette in suo onore, giungiamo finalmente nell’ex fabbrica in cui avrei incontrato Mr. Simonon e la sua creazione. Inutile sottolineare come, essendo l’evento sponsorizzato da una marca di rum, l’unica cosa a non mancare fossero un numero esagerato di cocktail a base di Sailor Jerry, che qualche patatina e un paio di olive non erano assolutamente in grado di contrastare. Dopo mezz’ora passata a sperare che il dj set scelto per aprire le danze se ne andasse il prima possibile, ecco che, senza alcun tipo di clamore, fa il suo ingresso l’ospite più atteso. Nonostante fosse la cosa a cui avevo pensato di più nelle ultime due settimane, o forse proprio per questo, inizialmente resto completamente immobile in un angolo a guardare quell’uomo che nella mia vita aveva significato così tanto. Tuttavia, complice l’alcol, decido che non possono bastarmi le due parole di circostanza che dirà nel corso della serata: devo andare a conoscerlo. Le tre ore che mi dividono dalla scelta di diventare uno stalker professionista e la fine della festa sono forse le più assurde capitatemi negli ultimi anni: non solo Simonon si dimostra di una gentilezza unica, cosa che poteva essere legata agli obblighi e al contesto della serata, ma di fatto mi invita a passare la serata in sua compagnia, presentandomi a chiunque e raccontandomi una serie infinita di cose, molte delle quali facevano riferimento a fatti di cui non avevo nemmeno mai sentito parlare. Nonostante il tasso alcolico di entrambi abbia raggiunto livelli fuori controllo, Simonon riesce a raccontarmi una serie senza fine di aneddoti legati alla sua infanzia italiana, arrivando persino a commuoversi quando gli racconto di non abitare così distante da quei luoghi. A sua volta, concluso un discorso, mi invita a fare altrettanto, a raccontargli la mia di infanzia, a parlargli della mia famiglia e di come fossi arrivato ad ascoltare la prima volta i Clash. Per una sera, in pratica, divento qualcosa a metà tra un fratello e un figlio adottivo.
La serata, tuttavia, non ha ancora sparato tutte le cartucce a sua disposizione: mentre parliamo del rosso di Montepulciano, una figura claudicante si avvicina a Paul e, abbracciandolo in modo scomposto, gli propone un torneo di braccio di ferro all’interno del locale. È così sfigurato dalle sostanze psicotrope che, inizialmente, faccio fatica a riconoscere in quel soggetto Damon Albarn. Dopo pochi minuti mi ritrovo così a misurare la mia forza con il cantante dei Blur e la copertina di London Calling in un clima ormai così fuori controllo che mi aspetto di vedere sbucare John Belushi vestito da antico romano. Se riesco ad avere facilmente la meglio su un Albarn davvero irriconoscibile, non è così quando mi siedo davanti a Simonon, le cui braccia sono più toniche di quelle della maggior parte dei presenti. Improvvisamente, però, il sogno finisce: una delle persone con cui sono arrivato mi comunica che un taxi ci attende fuori dal locale per portarci al pub in cui ci avremmo concluso la serata. Sono dunque costretto a salutare i miei nuovi amici, Paul mi abbraccia e mi chiede se il giorno dopo possiamo fare colazione insieme, mentre Albarn cerca di dirmi delle farsi di cui non comprendo assolutamente il significato. Quello che mi vuole dire mi è chiaro solo dopo qualche minuto, quando mi promette che mi riporterà lui in taxi nel luogo dove sono diretti i miei compagni. Passiamo ancora un’ora insieme, dopo di che, entrambi al limite delle forze, saliamo sul taxi che mi avrebbe condotto all’ultima tappa di un’avventura al limite della fiction. Appena saliti in macchina, la testa di Damon finisce contro il finestrino senza più dare cenni di vita, nemmeno quando cerco di salutarlo una volta arrivato a destinazione. Entro così nell’ennesimo pub, giusto in tempo per una gara di Jack Daniel’s che mi vede abdicare dopo sole tre portate; il tempo ormai stringe e quando arriviamo finalmente in hotel sono le quattro e mezza. Dormire un’ora mi sembra un’idiozia, ma mi rimane abbastanza tempo per un bagno sulla spiaggia. Quando suona la sveglia sono ancora nella vasca, immerso nell’acqua ormai gelida in una scena che la mia mitomania riconduce immediatamente ad un appartamento di Parigi nel ’71. Sfortunamente, solo io ho potuto raccontarla.