Mentre alla fine degli anni sessanta, da una parte all’altra dell’oceano, la maggior parte dei gruppi rock si cullava ancora sulle illusioni del concetto di “peace and love”, una compagnia di amici di Long Island aveva capito con qualche anno d’anticipo che quell’ideologia nascondeva anche orrori, cosa che i fatti di Altamont e la carneficina della famiglia Manson portarono puntualmente alla coscienza collettiva, infrangendone i fragili sogni. Quel gruppo di compagni, del cui giro faceva attivamente parte anche Patti Smith, sarebbe diventato una delle band più disturbanti del decennio successivo, i Blue Öyster Cult. Influente come e più di band quali Black Sabbath e Led Zeppelin, i BÖC non trovarono mai il successo di massa duraturo perché non riuscirono mai a vendersi alle regole di un mercato di cui pur avevano capito il funzionamento. Una band sublime e allo stesso tempo spaventosa, che ancora oggi suona terribilmente attuale. Albert Bouchard, che di quel nucleo era il batterista e una delle maggiori menti creative, ama ancora ricordare i tempi che furono, senza però provare nostalgia o vivere ancorato al proprio passato…
Ciao Albert, mi piacerebbe iniziare dalla conclusione della tua avventura con la band. La tua dipartita dopo “Fire Of Unknown Origin” rimane ancora avvolta nel mistero dopo tanti anni. Tu eri uno dei cardini dei BÖC, perché te ne andasti?
A dir la verità non ci fu solo una causa. Apparentemente la causa principale furono le continue discussioni che mi videro protagonista insieme a Sandra Roeser, la moglie di Buck. Arrivai al limite di sopportazione, sbraitai in malo modo e fui cacciato. Ma quella non era che la punta dell’iceberg: in quel periodo contava di più il management che i membri della band, so per certo che Sandy Pearlman, Allen Lanier e Eric Bloom erano contrari alla mia cacciata, ma non fecero niente per evitarla. Di sicuro io non volevo lasciare la band. Di sicuro ci sono ricordi che fanno troppo male per essere riportati alla coscienza, ma mi illudo di averli dimenticati.
Facendo un salto temporale ai giorni del vostro debutto, che band eravate nel 1971? Avevate piena coscienza della vostra direzione musicale?
Nei primi mesi di quell’anno avevamo le idee molto confuse sulla direzione che la nostra musica avrebbe dovuto seguire. Verso la fine dell’anno eravamo già più consci di quello che volevamo creare, ma fu solo l’aiuto fondamentale dei nostri primi produttori, Dave Lucas, Murray Krugman e Sandy Pearlman a convincerci del nostro potenziale. Krugman e Pearlman lavorarono principalmente sugli arrangiamenti e sulle strategie di marketing, mentre Lucas ci insegnò ad essere creativi nella fase di registrazione in studio.
Come funzionava il processo di registrazione degli album? Ognuno arrivava in studio con delle idee già pronte per essere suonate?
Il processo si è evoluto molto nel corso degli anni, disco dopo disco. All’inizio ci limitavamo a scrivere testi su fogli di carta e a produrre semplici demo con registratori comunissimi all’epoca. Da “Agent Of Fortune” in poi tutti potevamo disporre di registratori multitraccia, così che ognuno di noi poteva produrre arrangiamenti anche sofisticati da proporre al gruppo una volta in studio. Di sicuro in principio ci attenevamo molto ai demo portati in studio, quasi avessimo paura di modificarne l’idea originale, mentre quando registrammo “Fire of Unknown Origin” fummo incoraggiati dai produttori ad improvvisare come eravamo soliti fare sul palco.
Cosa ne pensi della formazione odierna dei Blue Öyster Cult? Sei ancora in contatto con loro?
Mi piace molto questa formazione. Sono andato a vederli la scorsa estate per salutarli. Sono stati tutti molto carini con me. Hanno una grande energia, cosa che alcune formazioni precedenti non possedevano e rendono bene i pezzi storici. Di sicuro manca quell’aura di mistero che accompagnava le nostre esibizioni, cosa alla quale io non avrei potuto rinunciare.
Hai mai pensato ad una reunion della line up originale? Se te lo chiedessero come reagiresti?
Ci ho pensato per moltissimi anni, ma ora non più come un tempo. Don e Eric un paio di anni fa chiesero a me e a Joe di partecipare ad uno show per i fan, ma alla fine il loro manager si mise di mezzo e impedì che la cosa avvenisse. Insieme siamo stati molto bene e a volte mi ritrovo a pensar a quanto mi manchi suonare con loro. Forse però mi manca l’idea di farlo e non la cosa in sé e per sé.
Cosa ricordi del “Black And Blue Tour” da headliner insieme ai Black Sabbath?
Me lo ricordo come un terribile tour pieno di tensioni continue. Ronnie James Dio per me, Joe ed Eric era un vero e proprio eroe: venivamo dalla scena di New York, quindi non poteva essere altrimenti. Era il miglior cantante che venisse fuori dalla città dai tempi di Tony Bennett ed era già una leggenda quando io ero solo un teenager. Purtroppo durante il primo giorno in tour uno dei nostri roadie fece un’osservazione pungente sui Sabbath e fu cacciato. Il giorno seguente scoprimmo che fu proprio Dio a farlo e il colpo fu così duro che non gli parlai per tutto il tour. Anche con Iommi ci furono problemi, una sera mi fece una sfuriata pazzesca perché secondo lui la mia chitarra acustica era troppo alta e regolarmente salivano tardi sul palco, causandoci problemi con gli orari prestabiliti. Ci alternavamo ogni sera e quando eravamo noi ad aprire non successe mai. Va detto che diventammo invece molto amici di Geezer e Vinnie Appice, con i quali sono in ottimi rapporti anche oggi. E in ogni caso invecchiando le cose cambiano, ora sono tutte ottime persone.
Come cambiarono le cose per la band dopo il successo di “Agents Of Fortune”?
Non potevamo immaginare come sarebbero cambiate le cose per noi dopo aver scalato le classifiche con un brano. Al di là dell’avere a disposizione molto più denaro di quello che potevamo spendere, ci trovammo di colpo a riempire le arene dopo anni di locali e pub e passammo dal prendere ottantacinque dollari alla settimana a prenderne più di mille! La cosa che però non potevamo aspettarci fu che, anche nelle peggiori serate, dove eravamo stanchi o svogliati, suonavamo male o c’erano problemi di qualsiasi tipo, bastava fare i due pezzi che la gente voleva sentire per ottenere successi clamorosi!
In che modo tutto ciò influì sul vostro modo di concepire la musica?
All’inizio fu molto complicato, perché subivamo la pressione involontaria del dover creare altre hit. Non puoi capire quanti pezzi scartammo in quel periodo. Un tempo eravamo soliti dirci: “non è un pezzo che suona come lo vorremmo”. Dopo “Agents Of Fortune”, invece, la cosa diventò: “suona molto bene, ma non diventerà mai una hit”. Chi dopo un grande successo riesce a fare tutto come prima, merita tutto il mio rispetto!
“Spectres” e “Cultosurus Erectus” ricevettero grandi recensioni, ma non vendettero molto. Penso siano ancora due ottimi album. Cosa ne pensi?
Mi piacciono moltissimo entrambi. “Spectres”, in particolare, andò molto male a causa dei problemi interni alla band e ad una produzione non all’altezza. L’album è pieno di grandi canzoni, ma troppe parti sono andate perse in fase di missaggio e il risultato è che le canzoni non suonano come vennero concepite. “Cultosaurus”, invece, fu un vero e proprio sfizio che ci togliemmo: tornammo a comporre pezzi simili agli esordi, spesso eliminando ciò che sembrava troppo commerciale: insomma fu la risposta contraria al periodo che ti spiegavo in precedenza. Pensa che scartammo persino “Burning For You”, che divenne il nostro pezzo di maggior successo degli anni ottanta e finì su “Fire Of Unknown Origin”.
Cosa mi dici a proposito di Patti Smith? Come fu lavorare con lei?
Patti è una persona stupenda, lavorare con lei fu incredibile e pensa che inizialmente avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di cantante della band. Era molto flessibile, non ha mai protestato se i suoi testi venivano leggermente ritoccati o cambiati in qualche modo. Era come se dicesse: “questo è quello che ho scritto, fatene ciò che volete”. Non ho mai conosciuto un’artista meno diva.
Ascolti ancora gli album dei Blue Öyster Cult? Pensi che suonino ancora attuali?
Sì, li ascolto ora come facevo ai tempi, non sono uno di quei musicisti che dicono di non ascoltare i propri dischi. Settimana scorsa ho ascoltato qualche brano da “Fire Of Unknown Origin” proprio per capire se mi sembrasse ormai datato, ma mi sono reso conto che invece è ancora molto attuale. Credo che la nostra continua ricerca di un sound che non appartenesse a nessuno, ci abbia fatto fare album che possono ancora competere con I prodotti di oggi. Il fatto di non essere mai diventati enormi quanto una band come i Beatles, ci permette di suonare ancora nuovi oggi poiché non abbiamo avuto decine di band senza talento pronte ad imitarci, come invece successe a loro e a tante altre band del passato. Quelli che abbiamo influenzato noi sono pochi e dotati di maggior talento, come i Metallica.
Avresti immaginato che la band avrebbe avuto un impatto così forte sull’hard rock degli ultimi trent’anni?
Assolutamente no. Prima del successo con la band, il mio sogno era quello di registrar un brano che le radio avrebbero trasmesso per moltissimi anni, un classico insomma. Mentre cercavo di realizzarlo, ho fatto un lunghissimo viaggio all’interno della creatività che ha avuto ripercussioni sulla società che non potevo nemmeno immaginare o attendere.
“Imaginos”, album del 1988, rimane uno dei più acclamati dei Blue Öyster Cult, ma in realtà fu un progetto nato solo dalla tua mente. Ormai eri fuori dalla band, ma non riuscisti a farne un album solista.
“Imaginos” diventò un album dei Blue Öyster Cult per via delle enormi pressioni della casa discografica (la Sony ndr) e della paura di Sandy Pearlman di bruciarci una grande occasione facendolo uscire a mio nome. Riuscirono nel capolavoro di bruciarla comunque…
Quello rimane anche uno degli album più sottovalutati della storia. Dove e quando nacque dentro di te l’idea per un progetto del genere? Lo ami ancora?
Sviluppai l’idea insieme a Sandy Pearlman nei primissimi anni della band. Posso dirti di aver creato le basi del concept praticamente da solo, nacquero da una mia idea insomma, ma Sandy fu fondamentale per svilupparla e fu una fonte di ispirazione continua. Mi diede album da ascoltare che pensava potessero aiutarmi nella composizione, come i Carmina Burana e tutti I dischi dei Byrds, lavorò con me alle melodie di molti brani e, ovviamente, scrisse tutte le liriche. Penso ancora sia uno dei miei lavori più belli, ma da vero artista ti dirò sempre che il meglio deve ancora venire. Il prossimo album dei Blue Coupe, la mia attuale band, uscirà il prossimo anno e non uscirà se non sarà un grande lavoro!
Veniamo allora al tuo presente. Chi è oggi Albert Bouchard?
Innanzitutto Albert Bouchard è un musicista a cui non piace parlare in terza persona! Mi piace aggiustare le cose, insegnare agli altri cose interessanti, scoprirne di continuo e farne a mia volta. Cerco di mantenermi in forma, di mangiare in modo salutare e di essere un membro responsabile della specie umana. E sono ancora un nerd della musica.
Mi vuoi parlare del progetto Blue Coupe? In Europa non conosciamo molto della cosa, ma in America ha riscosso un enorme successo e la candidatura ai Grammy. Siete nati come super band di cover, ma poi le cose sono cambiate…
Tutto è nato quando io e Joe (Bouchard, fratello e membro fondatore dei Blue Oyster Cult ndr) abbiamo suonato insieme Dennis Dunaway (storico bassista della Alice Cooper Band) allo show per salvare il CBGB dalla chiusura. Quella sera era presente il proprietario di un locale della Pennsylvania, che ci chiese di suonare per l’inaugurazione del club. Dopo quello show capimmo che avremmo potuto divertirci molto e iniziammo a suonare in giro per diversi locali, proponendo canzoni sia di Alice Cooper che dei Blue Oyster Cult. Poi, alla fine del 2009, Robby Krieger durante una telefonata mi suggerì che avremmo potuto creare qualcosa di nuovo, non delle semplici cover, così iniziammo a lavorare a “Tornado On The Tracks”. Il disco venne accolto molto bene, candidandosi a cinque Grammy Awards e ricevendo ottime recensioni. L’album è tuttora in ristampa poiché non ci si aspettava un risultato del genere.
Quanto è cambiato il tuo modo di suonare la batteria nel corso degli anni?
Molte cose sono cambiate da questo punto di vista, anche se non ti saprei dire bene il perché. Penso di avere uno stile più regolare oggi, forse perché ho lavorato molto con tracce pre registrate su cui dovevo solo aggiungere la batteria. Una volta, ai tempi dei BOC, avevo grosse difficoltà nel cantare mentre suonavo, mentre oggi lo faccio con estrema facilità. Inoltre non mi stanco più come quando ero giovane, forse perché ho imparato a dosare le forze e a non sprecarle tutte nella prima ora di show. Un’altra differenza di certo è la tecnologia: riesco a sentire molto meglio la mia voce con gli auricolari e ora non devo più preoccuparmi di molte cose che creavano diversi problemi nel suonare. Infine, il fatto di poter dedicare ad un pezzo tutto il tempo che voglio ha cambiato il mio approccio generale allo strumento.
So che dopo aver lasciato i BÖC hai suonato con altre grandi band come Mamas and Papas e Spencer Davis Group ed altre meno note, ma di grande spessore, come David Roter Method e Brain Surgeons. Cosa ti hanno lasciato quelle esperienze?
Gli show con Spencer Davis furono un divertimento continuo. Lui è una persona stupenda e non è ossessionato dal dover riproporre ogni sera le sue hit più celebri. Abbiamo suonato per tutta la East Coast, dal Maine alla Florida e quelli furono i miei primi grandi show dopo aver lasciato i Blue Öyster Cult. Con i Mamas And Papas in realtà ho suonato solo una manciata di show e tutti in casinò, ma suonare con delle leggende è sempre fantastico. Ho anche suonato per un certo periodo con Peter Noone degli Herman’s Hermit, anche lui una persona splendida. I problemi nacquero poiché il materiale della band mal si sposava con la mia immagine passata e la mia voglia di improvvisazione era mal vista: mi vietarono categoricamente di discostarmi dalle note originali dei brani. David Roter era uno dei miei migliori amici e suonare con lui era ogni sera una scarica di energia incredibile. Gli ultimi concerti con lui prima che morisse sono i più divertenti a cui posso dire di aver avuto il privilegio di partecipare. Quella con i Brain Surgeons, infine, fu un ritorno alla musica dopo anni passati a produrre giovani gruppi: producemmo buoni album, ma i cambi di line up non ci permisero mai di avere una vera direzione musicale. In più trovai difficoltà nell’affrontare interi tour nel ruolo di cantante.