Ci sono dischi che sembrano essere destinati a divenire gli ultimi della discografia di una band, quasi come se i protagonisti di quelle opere, più o meno inconsciamente, si rendessero conto che dopo quelle registrazioni non suoneranno mai più insieme. “L.A. Woman” dei Doors potrebbe essere uno di questi e la sua travagliata genesi lo spiega più di molti trattati di psicologia.
Spesso gli album hanno la capacità di raccontare meglio di mille parole la situazione interna ad una band al momento delle registrazioni: quasi come fossero specchi fedeli del lato oscuro di un gruppo, riescono a mostrare gli stati d’animo dei vari membri o semplicemente lo stato di salute della band stessa. Gli album dei Doors, in questo senso, sono esemplificativi: i primi due raccontano l’entusiasmo, la spinta rivoluzionaria e le visioni di un gruppo di studenti che rappresentava il lato meno pubblicizzato della fine degli anni sessanta, quello più distante dalle logiche del peace and love; “Waiting For The Sun” mostrò le prime crepe, portò la band sull’orlo dell’esaurimento e fece capire che le logiche di mercato andavano ben oltre la mera ispirazione, mentre il successivo “The Soft Parade”, nella sua inutile pomposità consegnò ai fan un gruppo distrutto, che avrebbe potuto essere, da lì a poco, un cadavere giovane e di bellissimo aspetto. Come spesso accade, però, la mancanza di ispirazione e i problemi interni conducono una band verso le proprie origini musicali, quasi a ricercare quel fuoco che caratterizza gli inizi di qualsiasi progetto. Operazione questa che può rischiare di portare a risultati non sempre caratterizzati da spontaneità, col rischio di risultare meri esercizi di stile fini a se stessi. Se “Morrison Hotel” fu acclamato come segno di un’evidentissima risalita di china, pur mostrando ancora qualche artificiosità, il successivo “L.A. Woman” riuscì davvero a riaprire le porte della percezione. Come questo sia stato possibile ha ancora dell’incredibile.
Siamo nel novembre del 1970, studi Sunset Sound al 6650 di Sunset Boulevard, quelli dei primi due album della band. Morrison, Krieger, Densmore e Manzarek sembrano totalmente incapaci di trovare la benché minima concentrazione e il materiale cui stanno lavorando insieme a Bruce Botnick e Paul Rothchild pare non convincere in primis gli stessi membri della band: qualche accordo di quella che diventerà “Riders On The Storm”, una parte della title track e una manciata di standard blues, più “Latin America”, un brano completo registrato per “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni e rifiutato dal regista italiano dopo averlo sentito dal vivo qualche tempo prima. In realtà quel poco che hanno a disposizione diventerà l’ossatura di uno dei loro album più belli ed influenti mai realizzato, ma il lassismo e la totale mancanza di una benché minima direzione musicale aveva reso il poco materiale qualcosa di inascoltabile alle orecchie di Rochchild, colui che non solo aveva fatto da produttore per ognuno dei cinque album precedenti, ma che aveva ricoperto un ruolo fondamentale anche a livello umano all’interno del gruppo. Quello che, come nel caso di George Martin con i Beatles, veniva considerato il quinto elemento della band, si sentì quasi preso in giro nell’ascoltare il nuovo materiale, tanto da arrivare ad una reazione tanto inaspettata, quanto inevitabile: l’abbandono. L’alleggerimento di una barca che sembrava colare a picco e che forse così avrebbe potuto raggiungere la terra ferma. “Era tremendo. Pura noia da una parete all’altra dello studio. Jim non c’era per niente. Aveva l’atteggiamento da bambino viziato e rovinava tutto apposta” – ricorda Rothchild – “Era tutto così noioso che per la prima volta nella mia carriera finivo addirittura con l’addormentarmi in studio”. In realtà l’aspetto musicale finì per diventare una sorta di pretesto per il produttore, che non ne poteva più di troppi aspetti legati al proprio lavoro ed in particolare a quelli con la band di Morrison e soci: la routine e la confidenza avevano finito per creare meccanismi difficili da invertire in poco tempo e le continue bizze di Morrison, alle quali Rothchild doveva porre freni di continuo, lo avevano portato sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Solo qualche sera prima, poco dopo la morte di Janis Joplin, i due si trovavano in un pub e Jim si mise a scherzare sul fatto che egli sarebbe stato il prossimo della lista. Quella frase ebbe un peso enorme sulla psiche di Rothchild, la cui ultima produzione era stata proprio “Pearl” della giovane cantante scomparsa. Densmore ricorda molto bene quel momento così particolare per il gruppo: “Eravamo allo sbando. Quella sera mentre eravamo seduti nello studio di registrazione dopo che Rothchild se n’era andato, Botnick si accorse della nostra tristezza”. La band accusò seriamente il colpo e piano piano iniziò a dover fare i conti con un metodo di lavoro nuovo, che nessuno sapeva dove avrebbe condotto.
Proprio dal loro storico ingegnere del suono venne allora l’idea di produrre insieme il successore di “Morrison Hotel”, senza l’aiuto di nessun altro e provando a ricreare l’atmosfera che aveva portato alla creazione dei primi due dischi. Paradossalmente, Rothchild, ancora una volta, aveva reso possibile la nascita di un nuovo album dei Doors. Decisero così di affittare lo studio mobile di Wally Heider e registrare nella loro sala prove, così da essere pienamente a proprio agio con l’ambiente e facilitare il clima creativo e di cooperazione tra i componenti del gruppo: un po’ come ai tempi dell’università. Botnick era per altro convinto che una semplificazione del modo di registrare sarebbe stata la scelta più giusta, dopo gli eccessi tecnologici degli ultimi anni. L’idea apparve immediatamente delle migliori, tanto che l’alleggerimento della pressione che circondava le session di registrazione da almeno due anni e che aveva raggiunto vette difficilmente sostenibili, finì per scomparire. Le maggiori preoccupazioni riguardavano però sempre Morrison, ogni giorno più perso alla ricerca di qualcosa probabilmente impossibile da raggiungere. Gli strascichi dello scandalo di Miami erano sempre più visibili sul corpo di Jim: da quella sera aveva teatralmente messo fine all’immagine che gli era stata creata intorno, quella del sex simbol pericoloso e maledetto e la sua scalata verso il tracollo di quell’immagine l’aveva condotto a raddoppiare il proprio peso, a farsi crescere nuovamente la barba e soprattutto, a passare gran parte della propria giornata a bere. Una strada che pareva ormai segnata e che gli amici di sempre riconoscevano, ma non riuscivano a fermare. La paura che attanagliava Manzarek, Krieger e Densmore era legata alla mancanza di quelle briglie che il vecchio produttore teneva costantemente nelle proprie mani e senza le quali, probabilmente, la band si sarebbe fermata ai tempi di “Waiting For The Sun”. Bruce, al contrario, era un uomo molto dimesso quando si trattava di dare indicazioni al prossimo e soprattutto non sembrava avere la capacità di mettersi contro Jimbo, l’alter ego incontrollabile e irritante di Morrison, col rischio di far ricadere l’onere sul resto della band. In fin dei conti, però, le alternative erano davvero poche e la gravità della situazione rendeva necessaria una decisione immediata, che quindi venne presa all’unanimità: Botnick fece portare tutta l’attrezzatura in Santa Monica Boulevard e la plancia di registrazione venne collocata sulla scrivania del loro manager, Bill Siddons, il cui ufficio divenne di fatto la sala regia. L’unico inconveniente tecnico era che sala regia e sala di registrazione si trovavano su due piani differenti dell’edificio e restavano in contatto solo tramite un interfono che le collegava e quindi, soprattutto in fase di sovraincisione, i musicisti si trovavano da soli in una stanza a parlare con i propri strumenti.
La vera rivoluzione nel modo di intere il lavoro attuata dal tecnico del suono fu quella di lasciare che ogni membro della band, Jim compreso, si assumesse molte più responsabilità che in passato. Il fatto di aver allentato la presa sul cantante, che in principio sembrava poter essere il punto debole dell’operazione, si rivelò invece la chiave di volta dell’intero processo: Morrison non mutò assolutamente il suo stile di vita, né tantomeno rallentò il numero delle sue sbronze, ma si calò perfettamente nella parte, diventando immediatamente più assennato e cooperativo. A differenza di Rothchild, Botnick era convinto non servissero trentacinque takes per ottenere un buon pezzo e che gli errori non fossero un ostacolo alla riuscita di un buon album, ma che contasse soltanto il feeling che ne scaturiva. Non insistette quindi mai nel far fare più di un paio di versioni di un brano e non ci fu alcun bisogno di tirar fuori con la forza le parti vocali a Morrison, perché in pratica furono incise tutte dal vivo nei bagni dell’ufficio, per sfruttarne l’eco. Un’altra differenza sostanziale con il recente passato riguardava l’utilizzo della tecnologia: era stata inventata da qualche tempo la registrazione a sedici piste, utilizzata infatti per l’album precedente, ma Botnick suggerì di registrare “L.A. Woman” sul vecchio otto piste utilizzato ai tempi di “Strange Days”. Siddons ricorda quell’aspetto con molta accuratezza: “Fu un disco molto viscerale. Fu una loro scelta precisa farlo così essenziale. “The Soft Parade” e la take 35 li aveva fatti disamorare della tecnologia”. Per quanto all’epoca potesse sembrare folle fare un passo indietro da quel punto di vista, anche quella scelta si rivelò azzeccatissima: così facendo, solo il materiale di massima qualità venne messo su nastro, portando il risultato su vette che sembravano irraggiungibili solo fino a qualche settimana prima. Col senno di poi, quel periodo parve a tutti un po’ come la chiusura di un cerchio ideale: il loro ultimo disco in studio con Jim Morrison si rivelò grezzo e semplice come il primo, molto più distante nella mente dei protagonisti dei quattro anni che erano in realtà trascorsi dalla sua realizzazione.
In effetti tutto questo processo di snellimento non solo giovò alla qualità dell’opera, ma permise alla band di registrare il tutto in pochissime settimane. In una delle sue ultime interviste, Morrison non nascose l’entusiasmo ritrovato: “Il primo album lo abbiamo realizzato in circa dieci giorni e poi ogni disco successivo ha richiesto sempre più tempo fino all’ultimo, per il quale ci sono voluti nove mesi. Per questo disco, siamo entrati in studio e abbiamo fatto una canzone al giorno. È stato incredibile. Forse anche perché siamo tornati alla strumentazione originale: solo noi quattro più un bassista. Abbiamo usato il bassista di Elvis…”. Proprio la presenza di Jerry Scheff fu un altro degli aspetti che galvanizzò non poco il cantante, da sempre accanito fan del Re del rock, che cercò in ogni modo di non sfigurare di fronte ad uno dei propri eroi musicali. In fin dei conti, molte delle reazioni sgradevoli di Jim erano una risposta alle imposizioni di figure che egli percepiva come autoritarie e che finiva per associare inconsciamente alla figura del padre: fossero esse le forze dell’ordine o un semplice amico che gli diceva come doveva comportarsi, Jim agiva nel modo opposto, talvolta mettendo a repentaglio la propria incolumità o quella di chi stava al suo fianco. Una volta venuta meno l’autorità, anche i suoi giochini di potere da adolescente finirono per affievolirsi in modo quasi naturale. La serenità delle session portò a risultati sbalorditivi dal punto di vista creativo, tanto da far gridare al miracolo la maggior parte della stampa specializzata dei tempi. Non si trattava semplicemente del prodotto più spostato verso il blues che avessero mai prodotto, ma di un vero e proprio manifesto delle migliaia di sfaccettature di cui la band era composta. Un disco zeppo di visioni poetiche potentissime, così come di canzoni leggere come poteva essere il classico singolo di Krieger “Love Her Madly”, il tutto ammantato dalle ossessioni di un Morrison che decise di mettere a nudo tutte le sue paure. “Amo il blues, è la musica che più mi piace e che preferisco cantare” – ripeteva in continuazione il cantante – ma il blues era anche la musica in grado di scavare più a fondo nell’anima, quella in grado di svegliare e portare alla luce tutti i suoi demoni. Che puntualmente presero dimora nelle sue liriche. “Hyacinth House”, per esempio, una volta superato l’apparente astrattismo era forse la canzone più amara che egli avesse mai composto. Fresco della lettura di un libro di Edna Hamilton sui miti greci, Morrison fu colpito particolarmente da quello di Giacinto, amico di Apollo ucciso accidentalmente dallo stesso dio durante il lancio di un disco. La disperazione di Apollo portò il sangue dell’amico a trasformarsi in bellissimi fiori, che finirono per prenderne il nome. Densmore capì immediatamente quanto di autobiografico ci fosse in quel testo e ancora oggi continua a pensarla così: “Ray si è sempre definito un apollineo. Non c’era alcuna rivalità tra di noi quando scrivevamo e arrangiavamo le nostre canzoni; per cui, dividevamo i proventi delle edizioni. Jim si era scordato che la vita è un gioco e si era autodistrutto in giovane età. Erano stati i Doors ad ammazzarlo, per quanto senza volerlo”. La strofa più amara resta però quella in cui Morrison parla del bisogno di trovare una nuova amica, ripetendola più volte ed arrivando all’inquietante conclusione che questa non possa che essere “la fine”.
In una non casuale autocitazione, Jim torna a paragonare la fine di tutto come un’amica, proprio come nel brano che concludeva il loro primo lavoro. La storia dietro la registrazione di “Crawling King Snake” partiva invece da molto lontano, dai tempi dei primi concerti della band. Era una delle canzoni preferite di Densmore, che ne aveva sempre adorato il groove e che gli permetteva dal vivo di omaggiare Art Blankey con una rullata veloce alla metà del brano. Jim sapeva quanto fosse amata dal batterista e, di ritorno da una delle sue avventure dove per poco ci aveva lasciato la pelle, propose al gruppo di inciderla per l’album. Sembrava davvero che con “L.A. Woman”, i Doors e Morrison in particolare volessero omaggiare alcune delle loro maggiori fonti d’ispirazione: qui poteva trattarsi di tutti quei cantanti blues di colore che egli ammirava, in “The Chageling” i fraseggi per i fiati alla chitarra di Krieger rimandavano palesemente a James Brown, mentre per la title track…be’ nessuno potrà mai dirlo con certezza. Secondo Diane Gardiner, addetta stampa della band per un breve lasso di tempo, residente nello stesso stabile di Pamela Courson e sua grande amica, Morrison aveva tratto ispirazione proprio da lei per la stesura del brano. “Nascoste da qualche parte ho un po’ di cose che scrisse per me, o che sembra siano state scritte per me…come l’ultimo album. “L.A. Woman” era una specie di descrizione dettagliata di quello che facevamo. Gli mettevo sempre su dei dischi blues quando veniva da me”. La donna fa riferimento alle prime strofe della canzone ed in particolare a quell’ “Into Your Blues”, che in quel caso non assumerebbe più il significato di tristezza, ma proprio di musica blues. Se anche la Gardiner poteva essere stata una delle muse ispiratrici del pezzo, di certo si trovava in buona compagnia. Pur senza alcuna conferma da parte dell’autore, la stessa Pamela sembrava la destinataria della strofa che rimandava ai capelli in fiamme (quindi rossi come quelli della sua compagna), anche se in realtà “L.A. Woman” probabilmente non era altro che l’addio di Morrison alla propria città, poco prima di abbandonarla per traferisti a Parigi, raggiungendo proprio la Courson. Una città, Los Angeles, da sempre ambivalente per lui, così protettiva ma allo stesso tempo tempio di perdizione e fonte inesauribile di tentazioni cui non sapeva resistere. La genialità di Morrison fu quella di descrivere la città come se fosse una donna, grazie ad uno dei testi più ambigui ed affascinanti che avesse mai scritto. “È una poesia che parla di una donna, ma anche di Los Angeles, una città che ha molte caratteristiche femminili. Ha delle qualità intuitive e femminili che mi hanno affascinato e poi conquistato” – spiegò Morrison, lasciando aperte le mille interpretazioni possibili per il brano. Quello che affascina maggiormente è il continuo cambiamento di prospettiva del brano, permesso proprio dal doppio significato del titolo: un attimo prima il poeta, in viaggio sulle strade della città, pare rivolgersi ad una ragazza attirata dalla fama e dalle tentazioni della metropoli e poco dopo, invece, è la città stessa a diventare l’interlocutrice di Morrison. Il vero fulcro della canzone, tuttavia, resta quello “del cambio d’umore dalla felicità alla tristezza” della parte centrale, dove Jim ripete in continuazione la celebre frase Mr Mojo Rising. Mojo nello slang dei neri d’America ricopriva una chiara connotazione sessuale e veniva utilizzato spesso come sinonimo dell’organo sessuale maschile stesso: pur non sapendo ancora il reale significato attribuitogli da Jim, durante la ripetizione della strofa, il resto della band decise di incrementare gradualmente il tempo fino a raggiungere nuovamente la velocità originale, quasi a mimare un orgasmo. Fu allora che Morrison chiamò al tavolo i propri amici e, dopo aver scritto il proprio nome per intero su un foglio di carta, fece notare loro come la frase appena cantata non fosse altro che l’anagramma del proprio nome. Quindi nuovamente una doppia chiave di lettura: da un lato il Signor Morrison che si stava risvegliando, ma allo stesso tempo un chiaro riferimento alla propria sessualità.
In ogni caso, questa è solo una parte di quello che ancora oggi, a quarant’anni dalla pubblicazione, “L.A. Woman” riesce a raccontare, tanto a chi è cresciuto con esso, così come al ragazzo che si ritrova a metterlo con lo stesso entusiasmo sul proprio lettore mp3. Una semplice chiave di lettura che non impedirà a nessuno di leggerci altre mille storie, ognuna filtrata attraverso la propria sensibilità. Come riassunse però nella propria biografia qualche anno dopo Ray Manzarek: “Lavorammo e sudammo e litigammo e ridemmo e concordammo e discordammo. Sottoponemmo le canzoni a un’enormità di cambiamenti. Le solleticammo e addomesticammo e viziammo e le mettemmo in riga. Era come ai vecchi tempi. Nessuno ci assillava. Niente tour. Niente squadra narcotici, niente buoncostume. Nessuno a darci fastidio. Tutto quello che avevamo da fare, era fare della musica. E tutto quello che Jim doveva fare era tirare fuori le parole del suo dizionario Webster interno e cantarle. E, fratello, ci dava dentro. Preciso. Andava forte. Ed era sobrio…alle prove. Non so cosa facesse al di fuori delle session dei Doors, ma alle prove era un uomo felice”.
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