È vero, nel 2010 avevano annunciato il proprio ritiro dalle scene, dopo quasi cinquant’anni di carriera, ma in pochi ci avevano creduto davvero. Pochi mesi fa, mentre i timori iniziavano a trasformarsi in rassegnazione, gli Scorpions hanno invece pubblicato Return To Forever, un album nuovo di zecca in grado di fare la gioia di fan vecchi e nuovi e che li proietta verso orizzonti ancora da capire. Il fondatore Rudolf Schenker ci ha parlato di tutto, dalla genesi dell’album al futuro della band: ecco cosa ne è venuto fuori.
Fa impressione pensare che gli Scorpions abbiano raggiunto il traguardo dei cinquant’anni di carriera: tutti siamo abituati a pensare a voi come ad un gruppo più giovane di Beatles e Stones…
“Effettivamente fa impressione anche a me pensare di aver passato così tanto tempo insieme come band, è una cosa che mette i brividi, ma fidati che li sentiamo tutti gli anni sulle spalle (ride, ndr). Capisco però quello che intendi dire: credo che la gente non si sia resa conto del fatto che avremmo raggiunto a breve un traguardo di questo tipo, perché in effetti band come i Beatles, gli Stones o gli Who sembrano in giro da molti più anni, paiono quasi appartenere ad un’altra epoca. Insomma, di queste band la gente si ricorda i filmati in bianco e nero, mentre se pensa agli Scopions la massa si ricorda del video di Wind Of Changes (ride, ndr).”
Eppure anche voi siete riusciti a segnare ogni decennio che avete attraversato, con l’apice assoluto degli anni ’80.
“Sai quello è un altro dei motivi per cui se pensi a noi credi di trovarti di fronte una band dell’età degli Iron Maiden o dei Metallica, per esempio. Nonostante le defezioni di musicisti per noi fondamentali come mio fratello Michael e Uli Jon Roth, siamo stati in grado di raccogliere tutto quello che avevamo seminato proprio durante quel decennio, aiutati anche dalla fortuna del movimento heavy metal. La gente ci vedeva headliner dei festival più importanti al mondo in quel periodo e forse ci ha tolto qualche anno dalle carte d’identità (ride, ndr). Inoltre fa impressione pensare che ad ogni tour il nostro pubblico sia sempre più giovane, il che significa che siamo riusciti a non diventare una band per nostalgici.”
Anche il web lo dimostra: siete forse la band classica col pubblico più giovane in assoluto.
“Tanti nostri colleghi hanno potuto fare a meno di preoccuparsi della propria visibilità in rete, poiché erano nomi così mainstream da muovere senza sforzo grosse masse. Noi invece siamo arrivati al nuovo millennio capendo che nulla poteva essere dato per scontato, visto che il grunge ci aveva quasi seppellito poco dopo il nostro più grande successo di pubblico. Abbiamo dunque capito subito che il web sarebbe stata a nuova frontiera e siamo sempre stati molto attenti a capirne le evoluzioni. Considera che dei più di sei milioni di persone che ci seguono su Facebook, la maggior parte va dai tredici ai trentadue anni e se ci pensi è straordinario. Wind Of Change ha superato da un po’ le cento milioni di visualizzazioni su Youtube.”
Insomma, quell’annuncio che sconvolse i fan di tutto il mondo qualche anno fa non ha più senso d’esistere, o ci vuoi convincere che anche Return To Forever faccia parte del saluto ai fan?
“Credimi, nel 2010 eravamo davvero convinti di essere arrivati al capolinea: Sting In The Tail ci aveva fatto tornare indietro nel tempo, quasi a chiudere un cerchio iniziato nel 1965 quando su un pezzo di carta cercavo di trovare un nome alla band. Dentro c’era tutta la nostra storia, il nostro sound: era in qualche modo auto celebrativo e pensammo fosse la conclusione perfetta della storia. Poi, un anno dopo pubblicammo Comeblack che a tutti gli effetti era un omaggio a tre cose: alla nostra storia, ai nostri fan e alle band che ci avevano influenzato negli anni sessanta. Anche dopo l’esperienza dell’album unplugged eravamo ancora convinti di smettere, ci sembravano gli ultimi sfizi della carriera.”
Da dove nasce allora Return To Forever?
“La sua genesi ha subito diversi cambiamenti nel corso dei mesi. Inizialmente avrebbe voluto essere una raccolta di brani lasciati fuori da nostri album passati e che non avevano mai trovato spazio da altre parti, così da dare ai fan veramente tutto quello che avevamo prodotto in questi cinquant’anni. Durante l’ascolto di alcuni brani, però, mi sono imbattuto in un quaderno su cui mia mamma aveva appuntato meticolosamente i soldi che avremmo dovuto restituirle nel tempo per l’acquisto dei nostri primi strumenti, scrivendo tra parentesi la data e il nome del gruppo. Quel ritrovamento ha commosso tanto me quanto i miei compagni, tanto da farci capire che un anniversario di quel tipo andava trattato per il suo vero valore.”
Dunque non mettendo insieme un po’ di scarti ma scrivendo un vero e proprio nuovo album…
“Esattamente, anche se più che di scarti si trattava di pezzi il cui mood mal si sposava con quello degli album in cui avrebbero dovuto essere inseriti. Ci è capitato molte volte di lasciare fuori brani che poi ci hanno fatto credere di essere completamente pazzi, solo che in quel momento preciso ci sembravano fuori contesto. Un po’ come Sting In The Tail, credo che Return To Forever rispecchi perfettamente quello che siamo e che, magari, saremo: una band da party, che ha sempre cercato di far divertire chi veniva a vederci e che nella coerenza ha cercato di trovare l’unica via da seguire, proprio come hanno fatto band come gli Ac/Dc o i Motörhead. Chiaramente potrai ritrovare molte parti autobiografiche, sia nelle sonorità che nei testi: We Built This House, per esempio, è proprio una metafora della storia della band.”
Quindi quante canzoni nuove avete composto?
“Alla fine di tutto il processo avevamo tra le mani diciannove canzoni registrate tutti insieme, alcune risuonate e in parte riscritte partendo da quelle che ti dicevo prima e che non avevano mai visto la luce. Più della metà, tuttavia, sono state scritte durante le session. Nel processo di hanno aiutato fortemente Mikael Nord Andersson e Martin Hansen, i due produttori svedesi che avevano prodotto anche Sting In The Tail e l’unplugged per MTV: mandavamo loro i brani e aspettavamo consigli e suggerimenti dalla Svezia. Non ti dirò quali sono i brani che avevamo già composto, per non influenzare i giudizi dei fan e perché credo che la forza del disco sia proprio l’omogeneità del sound: credo sia difficile capire davvero cosa è stato composto oggi e cosa nell’85…”
Evitando il cliché dell’album migliore della carriera, fai mai paragoni tra quello che componi e i brani classici del gruppo? Dove collochi Return To Forever?
“I paragoni sono quanto di più dannoso possa esistere per un musicista, soprattutto per quelli che l’opinione pubblica ritiene non possano più esprimersi ai livelli di quindici o vent’anni anni prima. Ti dico anche però che sono inevitabili, perché il mio stesso DNA musicale è formato dai brani composti in tutti questi anni, quindi è impossibile non pensare a come possa suonare un brano in relazione alla storia del gruppo, non si possono scindere le due cose. Detto ciò, credo che Return To Forever possa essere considerato il nostro album migliore forse da quei ragazzi di tredici anni che mettono ‘mi piace’ alla nostra pagina face book, mentre gli altri continueranno ad avere i loro album di riferimento, quelli a cui hanno legato qualcosa di speciale.”
Diciamo che avreste potuto pubblicare un greatest hits con Going Out With A Bang e Rock ‘N’ Roll Band e tutti avrebbero gridato al miracolo!
“Infatti ci era stato proposto già un paio d’anni fa, proprio in visione del cinquantesimo anniversario e come hai visto altre band come gli Stones e gli Who hanno portato avanti una cosa di questo genere, facendovi seguire un tour mondiale. Da questo punto di vista, invece, ci sentiamo per una volta più vicini ai Beach Boys, che hanno voluto rischiare e dimostrare di riuscire ancora a comporre materiale di alto livello per festeggiarsi. Noi in realtà non abbiamo mai perso davvero il contatto con le sessioni di registrazione, quindi non ci è voluto molto a rimetterci uno davanti all’altro e suonare del sano rock ‘n’ roll come quando avevamo sedici anni. A proposito, dall’altro dei miei sessantasei anni credo di essere il più giovane musicista a tagliare questo traguardo (ride, ndr).”
Qualcuno sperava che per festeggiare un compleanno di questo tipo potessero tornare nella band musicisti amati come tuo fratello o Uli Jon Roth…C’è qualche possibilità di rivedervi sullo stesso palco?
“Come ti dicevo prima, una delle nostre fortune è stata quella di non trasformarci in una band per nostalgici, come successo ad alcuni gruppi che per diversi anni hanno avuto anche più successo di noi: album senza voglia, poi tour, poi altro album come quello precedente e via così fino alla morte. Per quello avevamo pensato in modo così deciso al ritiro, per non rischiare di fare quella fine. Le strade tra noi e Michael si sono divise da un’infinità di anni e quelle con Uli da poco di meno, quindi pur sapendo che i nostri fan restano legati a quegli anni, a nessuno di noi è venuto in mente di chiamarli per incidere qualche brano del disco. Diverso sarebbe un concerto celebrativo in cui vedere la band suonare con membri passati: onestamente non lo escludo.”
Tra l’altro, il vero successo commerciale arrivò solo dopo i loro addii, non sempre ci si pensa…
“Ma non perché fossero musicisti meno dotati di Matthias Jabs che prese definitivamente il loro posto. È tutta la storia nel suo insieme ad avere un senso: tutto il lavoro che loro fecero servì a consolidare il nostro nome e a far sì che, continuando a lavorare in quel modo, si aprissero le porte del successo dalla fine degli anni settanta. Sicuramente cambiò il modo di concepire i brani degli Scorpions, soprattutto a livello di songwriting, perché io stesso mi trovai per la prima volta ad avere più spazio come compositore, con tutte le paure che ne potevano conseguire. Se prima il chitarrismo di mio fratello e di Uli Jon Roth avevano ancora legami con artisti come Hendrix o comunque con una forte matrice blues, dopo le cose cambiarono molto, forse si slegarono un po’ dal modello classico. Come autore, Still Loving You fu la svolta.”
Per alcuni fu anche la prima concessione al carrozzone delle band hard rock che scalavano le classifiche grazie a power ballads.
“Forse è vero, però credo che tutto si possa dire di Love At Fist Sting tranne che sia un album paraculo o fatto per scalare le classifiche. Una delle nostre fortune è sempre stata la duttilità della voce di Klaus: può essere devastante sui brani più tirati e di una dolcezza quasi femminile su quelli più lenti. Onestamente non credo che la band si sia mai trasformata in qualcosa di smaccatamente commerciale, ma sia sempre riuscita a mantenere gran parte del sound che l’ha vista nascere, proprio come dimostrano gli ultimi anni della nostra carriera. Certo, poi è un dato di fatto che molte persone ci conoscano per Wind Of Change, ma quello è un altro discorso.”
Hai citato più volte Wind Of Change e gli anni novanta. Come avete fatto a sopravvivere al grunge?
“Non devi mai dimenticarti che siamo tedeschi, quindi siamo una delle cose più difficili da abbattere in assoluto (ride, ndr): pensa anche al calcio e a quanto sia difficile battere la Germania, anche quella meno forte tecnicamente della storia. Ce l’abbiamo nel DNA, proprio come la capacità di risollevarci dopo le cadute, anche fragorose. E dire che gli anni novanta erano iniziati proprio con Crazy World, uno dei nostri maggiori successi commerciali, il che lasciava presagire un altro decennio di rock ‘n’ roll e arene come quello precedente. Nessuno di noi poteva immaginare qualcosa di così grande, anche a livello filosofico, da far sparire metà della band che capitanavano le classifiche di mezzo mondo fino a sei mesi prima.”
Il rischio era quello di trasformarsi e distruggere gli equilibri interni. Come avete reagito alle nuove sonorità?
“Prima ti parlava della coerenza come filo conduttore della storia della band: fu proprio la convinzione in quello che avevamo sempre fatto che ci portò ad andare avanti per la nostra strada, anche se ai tempi nessuno sembrava più interessato a nuove canzoni degli Scorpions: ci dissero che avremmo dovuto modernizzare il nostro sound, avvicinarci a sonorità più sporche, come quelle che le radio richiedevano in quel periodo. Credo che gli anni novanta abbiano creato alcune delle cose più belle della storia della musica, ma noi non suonavamo quella roba, eravamo tutt’altro e non potevamo diventare una band col sound di Seattle. Saremmo stati ridicoli come tutti quelli che ci provarono…”
Però avete continuato a produrre dischi, quindi qualcuno cui interessavate ancora esisteva nel mondo…
“Certo che esisteva, amico, ed era tutta la parte Est del mondo, dalla Russia fino al Giappone. Quello che abbiamo realmente fatto in quegli anni non fu cambiare in base alle mode, ma cercare altri mercati che, stupidamente, prima non avevamo mai considerato. Al di là della Cortina Di Ferro, che aveva impedito a tanta musica europea di arrivare a destinazione, c’erano altri paesi che non vedevano l’ora di poter vedere concerti come il nostro o di poter ascoltare musica proveniente dal vecchio continente. Non puoi capire la gioia della gente che ci trovavamo di fronte, fu una cosa che diede anche al gruppo uno slancio incredibile e ci donò le energie per poter rinascere a livello mondiale nel nuovo millennio.”
Quindi le date in Cina e poi in Russia per tour del cinquantesimo anniversario sono proprio un tributo a chi vi tenne uniti ai tempi?
“Assolutamente sì! Come puoi vedere dalle date, sono quasi più i mesi che trascorreremo in oriente che in occidente e proprio perché da quei tempi quel mercato non ci ha più abbandonato e noi abbiamo fatto altrettanto. Siamo cresciuti con lo spauracchio della Russia, quindi anche per noi è stata una scoperta culturale incredibile che ci ha arricchiti moltissimo e ci ha fatto conoscere persone splendide. Forse l’aspetto che ancora amo di più della musica è proprio quello di riuscire ad unire anche dove l’uomo ha fatto di tutto per dividere e distruggere. E questo dimostra inoltre che non sia per forza necessario parlare di politica nei propri brani per dare un messaggio positivo con le proprie canzoni. Anche i party possono unire le culture (ride, ndr).”
La storia ormai conferma che voi abbiate contribuito alla rinascita del vostro paese dopo le vicende drammatiche della Seconda Guerra Mondiale. Ne hai preso coscienza?
“Quando nella mia mente è nata l’idea di quelli che oggi sono gli Scorpions, la guerra era conclusa da vent’anni, ma gli strascichi materiali e morali di quella tragedia immane non avevano ancora abbandonato la Germania e, per determinate cose, non l’hanno fatto del tutto nemmeno oggi. Per dei ragazzi come noi era difficile capire la colpa che ci portavamo addosso come nazione, poiché non avevamo vissuto le atrocità della guerra, ma ne eravamo comunque in qualche modo colpevoli anche noi in quanto tedeschi. In una situazione del genere aggiungici il Muro di Berlino e potrai capire quanto le variabili potessero essere impazzite durante la nostra adolescenza. Ciò nonostante, come tutti i giovani, volevamo solo uscire da quella situazione e pensare di poter avere un avvenire che non fosse segnato dalla Guerra Fredda.”
Il vostro successo comunque ha aiutato l’immagine di un paese che pareva compromesso, non credi?
“Nei giorni scorsi ci hanno consegnato il Premio di Stato della Bassa Sassonia, che viene conferito per meriti in campo culturale, sociale, economico o scientifico e ti confesso che è stato gratificante come suonare a Donington la prima volta (ride, ndr). A parte gli scherzi, non so quanto abbiamo contribuito a migliorare l’immagine del nostro paese dopo la guerra, ma di sicuro abbiamo dimostrato che anche in un paese non anglofono si potesse creare musica in grado di competere con le più grandi band europee e mondiali e ti garantisco che prima di noi era davvero difficile sentire un gruppo tedesco in radio! Come ti dicevo prima, il popolo tedesco ha una capacità pazzesca di risorgere dalle proprie ceneri e l’attuale situazione politica lo dimostra molto bene.”
Non siete nuovi alle imprese, comunque, visto che avete fatto gridare al miracolo per un MTV Unplugged nel 2013!
“Quella è stata la nostra rivincita nei confronti degli anni novanta (ride, ndr). Nessuno di noi s’aspettava che MTV potesse chiederci in quel momento di creare uno show di quel tipo, anche se non sono tra quei musicisti che vede in essa la fine della musica o catastrofi di questo tipo. Sarei anzi un ipocrita, perché negli anni ottanta e fino all’inizio del decennio successivo MTV fu una piattaforma per noi fondamentale. Di base, un canale televisivo resta un veicolo e come tale mostra quello che la gente vuole vedere in quel momento, anche se ammetto che dietro ci siano sempre grossi interessi da parte delle case discografiche. A conti fatti, comunque, credo che a livello culturale abbia avuto un grosso peso dai primi anni ottanta in poi.”
Onestamente, sarà questo l’ultimo album degli Scorpions?
“Francamente, non te lo so dire. Oggi so solo che forse sarebbe stato assurdo dare l’addio al nostro pubblico dopo quarantasette o quarantotto anni di carriera e, fortunatamente, stando tutti bene fisicamente. Posso dirti che se questo fosse davvero il nostro epitaffio, credo che sia un addio davvero degno della nostra storia e rispettoso dei nostri fan, presenti e passati. Ci stiamo divertendo come non ci capitava da tanti anni, abbiamo richieste continue anche da posti che in passato non avevano mai mostrato grande interesse, dunque lasciamo aperte tutte le porte e non sbilanciamoci più come qualche anno fa, altrimenti rischieremmo di diventare ridicoli! Tra l’altro verremo tre volte in Italia, cosa che credo non sia mai successa in tutta la nostra storia: vedi che i motivi per andare avanti sono molteplici…”