Da anni i fan degli Whitesnake chiedevano invano a David Coverdale di reinterpretare i brani che, appena ventunenne, l’avevano portato alla celebrità mondiale nel ruolo di cantante dei Deep Purple. Finalmente, per onorare una promessa fatta all’amico Jon Lord, la band pubblica The Purple Album, forse il più grande omaggio mai fatto alla band inglese.
Alla fine hai ceduto alla volontà del tuo pubblico e ti sei confrontato nuovamente con il tuo glorioso passato. Cosa ti ha spinto a farlo dopo quarant’anni?
“Come saprai bene, non sono uno di quei cantanti che rinnegano qualcosa del proprio passato, nemmeno di quello più oscuro o meno apprezzato. Ognuno è la somma di tutte le esperienze che ha vissuto nel corso della propria esistenza, quindi se sono qui ora a parlare con te è anche grazie agli errori. Questo per dirti che con gli Whitesnake sono trent’anni che rendo omaggio ai Deep Purple con umiltà e una riconoscenza che forse non ho mai esplicitato nel migliore dei modi, ma che ha sempre fatto parte della mia persona. Mi sembrava fosse giunto il momento di renderla pubblica. Quando la band si sciolse fu un durissimo colpo per me e ti confesso che ho sempre pensato agli Whitesnake come una sorta di eredità spirituale dei Deep Purple, o per lo meno dei Mark III e IV.”
In effetti, quando dopo un paio di album ti raggiunsero Jon Lord e Ian Paice in molti la pensarono in questo modo…
“Jon era già con me dai tempi di Trouble, una di quelle cose che mi aveva convinto di essere sulla strada giusta: se un musicista come lui aveva accettato di suonare negli Whitesnake, forse non ero così male come autore di canzoni. Credo che se il povero Tommy (Bolin, ndr) non fosse morto tragicamente, ai tempi di Ready An’ Willing saremmo tornati tutti insieme. Anche Glenn era d’accordo, perché a tutti era rimasto quel senso di incompiuto che magari inizialmente ti fa dormire, ma poi col tempo ti si ripresenta quando meno te lo aspetti. Inoltre continuavo a nutrire nei confronti della band e anche di Richie un affetto che andava oltre il mero lato musicale: a soli ventun anni mi diedero la possibilità di entrare in una della band più note al mondo e di scrivere canzoni: un rischio completo.”
Fa ancora ridere pensare che ai tempi delle primissime esibizioni la stampa parlasse di te pensando che fossi ancora Ian Gillan! Come ti sentivi?
“Mi sentivo bene perché dicevano che Ian Gillan era in grandissima forma (ride, ndr). Come vuoi che mi sentissi…Ai tempi dell’addio di Gillan e Glover, i Deep Purple erano poco meno grandi dei Led Zeppelin, tanto che per un ragazzo come me cresciuto proprio con certe sonorità da una parte e con un amore per la musica nera dall’altra, mi sembrava tutto così straordinario che cose come quelle nemmeno avevo il tempo di seguirle. Non ti nascondo che gli stessi Lord e Blackmore inizialmente temessero che gli inevitabili paragoni finissero per affossare un album che in realtà era pieno di grandi canzoni, ma fortunatamente la stampa di allora era molto più attenta alla musica che non al gossip. Hanno fatto un grande album? Bene. Fa schifo? Lo stronchiamo. Col tempo è diventato tutto più difficile, tanto che oggi spesso chi si occupa di musica nemmeno sente più i dischi. Inoltre Burn vendette più di qualsiasi disco precedente.”
The Purple Album ricorda anche a molti che non se lo ricordano più che grande autore di canzoni tu sia…
“Sono stato dipinto come un egocentrico, una prima donna e cose di questo tipo e ti posso anche dire che per lungo tempo quei tratti di me sono usciti fuori più di quanto volessi. Ero sostanzialmente un timido, ero molto giovane e piano piano iniziai a dover indossare spesso una maschera che mi consentisse di esibirmi di fronte a folle oceaniche senza perdere la testa. Non so se sia o se fossi già allora un buon autore e non mi interessa nemmeno che la gente me lo dica. Mi spiace solo che in America continuino a considerarmi solo quello dei video di MTV degli anni ottanta, visto che anche negli anni dell’hair metal, credo che i nostri dischi vendessero perché avevano all’interno delle buone canzoni e non per la bellezza del cantante (ride, ndr).”
In effetti certa stampa ha spesso snobbato o sottovalutato il valore di una band come gli Whitesnake o la tua figura. Oltre a quell’infinito paragone con Robert Plant.
“Come ti dicevo, le cose iniziarono davvero a cambiare negli anni ottanta. Io in certi casi aiutai anche certa stampa a non vedermi di buon occhio: cambi di formazione, un po’ di divismo e gli strascichi polemici con Blackmore fecero sì che qualcuno si facesse un’idea di me che non corrispondeva del tutto alla realtà. La cosa di Plant è saltata fuori migliaia di volte, tanto che a volte mi prendevo gioco di chi la tirava fuori accentuando qualche atteggiamento che poteva ricordarlo (ride, ndr). Saprai che anche uno degli sproloqui dello stesso Richie riguardava proprio quella questione, ma lì nemmeno me la presi perché si trattavano delle classiche parole dell’animale ferito, che dice cose che in realtà nemmeno pensa. Il massimo fu però ai tempi della collaborazione con Page, dove la stampa ci aspettava al varco per dirci quanto fossimo patetici!”
Ad ogni modo quella fu una scelta che dimostrò che avevi ancora delle grandi palle, proprio come nel proporre testi tuoi a vent’anni a Richie Blackmore o a fare un disco di cover dei Deep Purple oggi…
“Se dovessi dire una parte di me che ho sempre apprezzato, di sicuro sarebbe l’aver sempre creduto nelle mie potenzialità. Che poi qualcuno le voglia chiamare palle è un altro discorso, ma credo si tratti di autostima tutto sommato. Anche se ti confesso che Richie un po’ di timore lo incuteva. Il problema è che oggi storie come la mia non sarebbero possibili, a prescindere dal talento o le palle. Ormai ci si è convinti che se non hai almeno trenta o quarant’anni non puoi essere credibile nel dire certe cose. È un problema molto serio, perché riguarda tutti i campi della cultura e delle professioni in generale e il fatto che siano ancora le vecchie band a trainare anche il settore live fa riflettere. È chiaro che sono contento di vedere ancora in giro tanti amici e gli stessi Whitesnake, però la sensazione è che la nostra generazione non sia riuscita a figliare come avrebbe potuto.”
Ora però i tuoi rapporti con Blackmore sono risanati. Siete diventati vecchi?
“(Ride, ndr) Forse è proprio così! In realtà anche in questo ha messo una mano Jon Lord. Venni chiamato una mattina da un membro del vecchio staff dei Deep Purple che mi annunciava la triste notizia della malattia di Jon. Mi disse anche che il suo più grande desiderio fosse quello di rivedere unito il Mark III, forse proprio per lo stesso discorso che stavamo facendo prima. Io mi dichiarai subito disponibilissimo, ma come sai le cose non sono andate come avremmo sperato. Nonostante questo, anzi spinto proprio dalla voglia di realizzare in parte il suo sogno, ricontattai Richie per appianare tutti i dissapori e provare a fare qualcosa insieme, come ai vecchi tempi. Pensa che inizialmente l’idea era quella di fare qualcosa di nuovo, proprio qualcosa di simile al progetto Coverdale/Page, ma dopo poco mi accorsi che sarebbero nate le solite questioni sulla direzione musicale e quindi, prima che si rovinassero ancora i rapporti, ho deciso di mollare il colpo e lasciarlo al suo medioevo (ride, ndr).”
E quindi hai optato per i Purplesnake…
“Esattamente, mi piace Purplesnake, molto meglio di quel Deep Sabbath che la stampa utilizzò ai tempi dell’ingresso di Ian Gillan nella band di Iommi (ride, ndr). In realtà è stata mia moglie a consigliarmi quella via: io ero già al lavoro al nuovo album d’inediti. L’idea però era davvero intrigante, anche perché da anni molti fan mi chiedevano di mischiare gli elementi delle due band per delle riedizioni di quei classici. È un’operazione davvero strana per il music business, forse inedita, quindi davvero intrigante. Credo che la cosa più bella sia data dal fatto che le versioni sono fedelissime agli originali, ma allo stesso tempo contengano tutte le caratteristiche che hanno reso noti gli Whitesnake. Spero davvero si percepisca l’amore con cui è stato registrato e non passi come il lavoro di una band che voleva tornare sul mercato con qualcosa di semplice.”
Ti riferisci ad un sound Whitesnake ben preciso, anche se siete una delle formazioni con più cambi di line up nella storia del rock. Qual è la caratteristica che distingue un vostro album?
“In effetti la nostra discografia è molto particolare e una delle cose singolari è senza dubbio il fatto che difficilmente due dischi hanno visto la presenza degli stessi musicisti. Però, sono sempre stato convinto che alcune band non possano prescindere dai membri del gruppo, mentre per altre la vera questione sia l’attitudine. Se ci pensi bene, un filo conduttore ben preciso si sente, anche tra gli album che possono sembrare più distanti: se spogli i pezzi, se li decontestualizzi e quindi non pensi alle diverse produzioni che variavano con i decenni, ti accorgi che il mio modo di scrivere canzoni non sia cambiato poi molto. Inoltre ho sempre cercato partner compositivi che mi riportassero in un determinato mood, proprio quello che fa sì che la gente sappia sempre che stiamo parlando della stessa band di 1987 e Love Hunter anche se magari di quella band non c’è più nemmeno un componente.”
In più ci sono le due chitarre, cosa che nei Deep Purple non si è mai vista!
“Esattamente. Se l’hammond è l’elemento che mancava agli Whitesnake e che abbiamo inserito per l’occasione, le due chitarre sono quello che noi abbiamo aggiunto al sound dei Purple. Forse è questo l’elemento cui facevo maggior riferimento prima quando parlavo del classico sound degli Whitesnake. L’unio elemento di varietà sta nell’aver provato a modernizzare un po’ questi brani, a dargli una nuova veste in grado di ribadire quanto fossero avanti coi tempi musicisti come Ian Paice, Jon Lord e Richie Blackmore. Non ti nascondo poi che sia stato davvero stimolante per me confrontarmi di nuovo in studio con brani che non registravo da quarant’anni: la mia voce è cambiata inevitabilmente, ha subito operazioni e si è ispessita, ma sono davvero contento del risultato finale. Anche questo è un altro passo in avanti della mia carriera.”
Gli Whitesnake risuonarono pezzi come Crying In The Rain e Here I Go Again, che divennero hit solo in quel momento. Pensi possa succedere con qualche traccia di questo disco?
“No, anche perché l’intento questa volta è completamente diverso. Voglio ribadire che in questo caso non c’è nessuna intenzione di mettere a confronto queste versioni con le originali, sarebbe folle e andrebbe contro quello che è invece l’obiettivo dell’operazione: omaggiare chi fece così tanto per me allora. La storia dei brani di cui parli tu fu molto differente: mi sembravano grandissimi canzoni, con un potenziale incredibile che, a causa dell’oscurità in cui erano state relegate, non era assolutamente riuscito a concretizzarsi ai tempi di Saints & Sinners. Se in particolare pensi poi a Here I Go Again, sarebbe stato davvero un peccato se non avesse goduto della fama che meritava. Ecco, magari posso sperare che qualche pezzo meno considerato a quei tempi possa essere rivalutato e riportato alle nuove generazioni.”
Immagino tu ti riferisca soprattutto ai brani ripescati da Come Taste The Band…
“Assolutamente sì, amico mio. Non smetterò mai di dire che quello rimane un disco stupefacente, che credo pagò principalmente il fatto dell’addio di Richie. Tutti parlano del discorso delle sonorità, anche se in realtà sono sicuro che in molti legavano indissolubilmente il moniker Deep Purple con il nome di Blackmore. Verissimo, ma solo in parte. Già in Stormbringer avevamo iniziato a muoverci verso sonorità di un certo tipo, ma la gente lo apprezzò tantissimo. Vero è che lì calcammo un po’ la mano (ride, ndr), ma Bolin pagò troppo il confronto e le parole sprezzanti di Richie su tutti noi e sul fatto che senza di lui la band non avrebbe avuto futuro. Se questo album farà sì che anche solo un ragazzo lo riprenda in mano avrò vinto. Magari la ristampa, dove Kevin Shirley fece un lavoro stupefante nei nuovi missaggi.”
Eppure i due più affiatati musicalmente sembravano Bolin e Hughes!
“Ma infatti era così. Io avevo sicuramente un background che comprendeva certe sonorità, avevo una vocalità che talvolta si avvicinava alla musica nera, anche se forse più all’R&B che al funk. Certo è che mi trovavo più a mio agio nel comporre brani che avessero una matrice rock blues, ma quell’esperienza fu incredibile perché mi fece scoprire territori che avevo solcato poche volte e mi fece andare oltre i miei limiti. Per altro sono convinto che col tempo avremmo trovato un equilibrio tra il vecchio sound del gruppo e quello più funk. La stessa carriera di Glenn Hughes dimostra che la cosa sarebbe potuta avvenire: è come se avesse un po’ portato avanti il discorso iniziato lì. Il segreto, comunque, è suonare con musicisti aperti mentalmente e che non si fermano di fronte ai cliché e quella formazione sicuramente non aveva preconcetti.”
È stato più difficile riconfrontarti con brani che avevi cantato decenni fa o trovare una sezione ritmica che non sfigurasse con la coppia Paice/Hughes?
“Ci sono situazioni in cui se provi ad emulare gli originali rischi di cadere in modo fragoroso: siano questi altre persone o tu stesso, ma un’infinità di anni prima. Il rischio è quello di diventare ridicoli. Ho richiamato con me Tommy (Aldridge, ndr), che conosco da vent’anni e aveva già suonato per diverso tempo nella band, perché sapevo perfettamente che avrebbe fatto un lavoro sublime su brani come questi. Credo che Ian Paice sia il più grande batterista della storia del rock insieme a John Bonham e Keith Moon, ma per sua sfortuna lui è ancora vivo (ride, ndr). Michael Devin invece è ormai un membro fisso da cinque anni e non puoi capire quanto abbia preso sul serio la questione: inizialmente era terrorizzato all’idea di confrontarsi su album con quelle pietre miliari, poi è venuto fuori tutto il suo talento. Forse sono stati i due musicisti più impegnati nel progetto.”
Invece, il vero segreto del sound di ogni formazione dei Deep Purple resta forse Jon Lord. Cosa ne dici?
“Posto che poche band sono diventate così grandi grazie ad uno o due componenti, va riconosciuto a Blackmore e Jon di essere stati fin da subito le colonne portanti del sound del gruppo. Se però di band hard rock in cui la chitarra era fondamentale ce n’erano molte e, tutto sommato, Richie non era certo in cattiva compagnia in quanto a talenti delle sei corde, la figura di Jon Lord resta quasi un unicum. Non mi viene in mente niente in quegli anni che potesse avvicinarsi al suo modo di suonare, a quella sua visione, per molti impossibile, di portare elementi di musica classica in una band di rock pesante. L’unica altra band così influenzata da un suono che non fosse quello della chitarra forse erano stati i Doors, nei quali il lavoro di Ray Manzarek poteva avere avuto un ruolo così innovativo. Inoltre in pochi ricordano che fu il primo a pensare di poter far convivere un’orchestra insieme ad una band hard rock.”
Autorizzi dunque i tuoi fan a sperare in un tour di supporto al disco?
“Assolutamente sì, non ci sono dubbi a riguardo! Non vedo l’ora di risuonare dal vivo tutti questi pezzi, molti dei quali nessuno suona dagli anni settanta e per celebrare degnamente l’evento stiamo pensando a qualche sorpresa per alcune date del tour. Non sappiamo ancora bene quante canzoni del disco fare e soprattutto se suonare solo pezzi dei Deep Purple oppure lasciare uno spazio finale per i brani che non possono mancare in un concerto degli Whitesnake. Un’altra idea è quella di iniziare e finire con due nostre super hit e in mezzo suonare il nuovo disco, in pratica il contrario di un nostro classico concerto, dove Burn e Stormbringer spesso hanno aperto e chiuso la serata. Quel che è certo è che non capiterà molte altre volte nella vita di risentire dal vivo queste canzoni, anche perché non credo passerà molto tempo prima dell’uscita del nuovo album d’inediti.”
Quindi il rischio è che l’anno prossimo i fan possano vedere voi e la formazione odierna Deep Purple a distanza di pochissimo tempo.
“Credo che più che una possibilità sia una vera e propria certezza. La fortuna è che nessuno dei due avrà brani che andranno a sovrapporsi a quelli dell’altro, senza considerare che alcuni di questi non vengono suonati dal 1976 e che, in ogni caso, Ian Gillan non canterebbe mai nessuno dei brani scritti da me per la band. Non voglio fare commenti sui Deep Purple di oggi, anche se posso dire che credo non possa esistere una formazione della band senza la presenza di Jon Lord, nonostante Don Airey sia un musicista incredibile. Ma mi piace pensare solo ai fan, dunque credo che avere in tour sia loro che noi contemporaneamente sia una sorta di sogno, come poter vedere simultaneamente i Black Sabbath con Ozzy e Ronnie James Dio, cose davvero impensabili. Non ho idea di quali siano gli spazi migliori per presentare dal vivo il disco: sarebbe intrigante anche tornare nei club, ma penso sarebbe uno svantaggio per il pubblico.”
Doug Aldrich non c’è più, quanto influirà la sua assenza sui nuovi brani degli Whitesnake?
“Per forza di cose moltissimo,visto che tutti gli ultimi dischi portavano le nostre firme nei crediti delle canzoni. Non credo tuttavia che non possano nascere nuovi brani degli Whitesnake senza Doug, visto che è la nostra storia che lo dice e in ogni caso non potrebbe essere altrimenti. Devo ammettere che è stato un durissimo colpo, visto che erano già iniziati i lavori per un nuovo album, ma Doug in quel momento aveva troppi progetti aperti per poter essere completamente disponibile e per una band come la nostra questa cosa non può succedere. Anche se in studio si parla di un paio di dischi, resta uno dei chitarristi più longevi della nostra storia e basta questo per spiegarti quanto bene mi trovassi a lavorare con lui. Gli auguro solo il meglio, è una persona splendida.”