Se, alcuni anni fa, qualcuno li aveva frettolosamente assurti a futuro del rock ‘n’ roll mondiale, altrettanto alla svelta la notorietà dei The Answer era andata svanendo, insieme a tutte le aspettative che ne avevano accompagnato ogni nuova uscita. Oggi, complice una minore pressione, la band è tornata libera di fare quello che le è sempre riuscito meglio: omaggiare un certo tipo di musica, senza tuttavia apparire come dei cloni di qualcuno. Cormac Neeson ci ha svelato qualche segreto di Raise A Little Hell.
C’è stato un momento in cui l’attenzione nei vostri confronti sembrava calata drasticamente. Vi siete sentiti sedotti e abbandonati?
“No, sappiamo benissimo come vanno queste cose e come funziona il music business: un giorno sei Dio e quello dopo una vecchia scoreggia. Tutti iniziarono davvero ad interessarsi a noi dopo il tour di supporto agli Ac/Dc e in pratica la band esisteva già da dieci anni, quindi siamo assolutamente vaccinati da questo punto di vista. inoltre, il fatto di avere meno il fiato sul collo ci ha permesso di tornare a divertirci nel fare musica, cosa che in effetti era venuta un po’ meno nel tempo. Ci siamo divertiti come agli esordi sia a scrivere che a registrare il disco e credo che questo sentimento traspaia fin dalla prima traccia.”
Quindi, come spesso accade, non avere più i fari puntati addosso è stato d’aiuto al songwriting…
“Sì, c’è stato un momento in cui ci siamo guardati e ci siamo chiesti se ci stavamo ancora divertendo. Le risposte furono tutte negative. Amavamo ancora andare in giro a suonare, ma ci aveva colto una sorta di paura da studio, se vogliamo chiamarla così. Infatti, se vogliamo dirla tutta, abbiamo avuto anche un calo compositivo ad un certo punto della nostra carriera. Non so se sia un bene o un male, ma tutti continuano a considerarci una band agli esordi, di grandi speranze, ma abbiamo una storia di quindici anni alle spalle, passati a sudare sui palchi di mezzo mondo. Quindi, bene che continuino a dirci che siamo giovani, ma non vogliamo nemmeno fare i Peter Pan dell’hard rok, è una cosa che non ci interessa affatto (ride, ndr).”
Credo non sia facile voler dimostrare di essere il presente e il futuro di certe sonorità, continuando a fare rimandi al passato. Servono le palle.
“Fortunatamente, ormai il concetto di revival viene visto in maniera un po’ differente rispetto a qualche anno fa. C’è stato un periodo in cui i locali cercavano solo gruppi di cover, per attirare in modo indolore un sacco di gente col minimo sforzo. Poi grazie ad una serie di band come noi sparse un po’ per il mondo siamo riusciti a convincere tutti che si potesse fare della buona musica inedita rifacendosi a quelle sonorità. Il rischio più grosso è quello di plagiare certa musica, più che trarne ispirazione: molte band uscite nell’ultimo decennio hanno fatto proprio quell’errore. La gente non è stupida: un conto è amare band come Led Zeppelin, Rolling Stones o Ac/Dc, un altro è credere di poterne prendere il posto quando questi non sono in giro o non esistono più. C’è una differenza sostanziale.”
A proposito, credi che il fermento che ancora circonda band che venivano considerate bollite a metà anni ottanta sia d’intralcio a band come la vostra o vi favoriscano?
“Partiamo col dire che quando band come gli Ac/Dc, gli Who o gli Stones annunciano nuovi tour, il mondo non può che essere un posto migliore rispetto al giorno precedente. Inoltre, benché tutti pensino che avere come competitor gruppi del genere non può che mettere in ombra il nuovo rock, non capisce che invece il meccanismo è proprio opposto: fino a quando loro saranno in giro, la gente farà meno fatica a capire da dove veniamo e quali siano le nostre origini. Se non ci fossero sempre state nuove generazioni di musicisti e padri putativi alle spalle, il rock si sarebbe fermato a Chuck Berry o a Jerry Lee Lewis. Mi fa ridere chi dice che il rock è morto da decenni.”
Il rock, dunque, è da considerare un’arte o resta semplice intrattenimento?
“Freddie Mercury diceva che le sue canzoni dovevano essere usa e getta come i rasoi bic, puro intrattenimento, insomma. Però credo che anche lui dentro di sé pensasse che alcune sue creazioni fossero da considerare pura arte. Sarebbe un errore pensare che non ci sia cura maniacale dietro ad una canzone, anche alla più semplice e immediata. Pensiamo a tutto nei minimi particolari, sia dal punto di vista musicale che dell’estetica, che crediamo sia importante quanto il comporre buona musica. Facciamo tutto in primis come artisti e poi come intrattenitori. Anche se la parte dell’intrattenimento puro pensa esca solamente quando suoniamo dal vivo. E poi, in fin dei conti, l’arte non nasce come forma di intrattenimento? Tutte le altre sono seghe mentali.”
Eppure questa volta sembra che abbiate lasciato più spazio alle vostre personalità, piuttosto che seguire una strada già segnata. È il vostro album più personale?
“Assolutamente sì. Di tutti i nostri album credo che Raise A Little Hell sia quello più legato alla nostra attitudine, al nostro modo di concepire la musica. Per la prima volta abbiamo davvero fatto quadrato intorno alla band, senza permettere a nessuno di interferire con il nostro processo creativo: né la casa discografica, né il nostro management né i nostri fan avrebbero dovuto condizionarci in alcun modo. È il primo album che componiamo interamente per noi da quello di debutto, anzi forse per quello avevamo più voglia di dimostrare di chi eravamo rispetto ad oggi. D’altra parte, per un po’ di tempo abbiamo pensato a compiacere chi ci stava intorno ed è lì che abbiamo iniziato a perdere il contatto con noi stessi e il nostro modo di concepire il rock ‘n’ roll.”
Hai detto che registrare in Spagna è stata un’esperienza diversa da tutte quelle precedenti. In che termini?
“Da diversi punti di vista. In primis perché ci siamo trovati a lavorare con il nostro amico di vecchia data Will Maya, uno dei professionisti migliori con cui abbiamo mai collaborato. Poi perché eravamo sulle montagne vicino a Madrid, in un posto incantevole e che pareva rimasto indietro nel tempo. Con gli anni abbiamo capito che rendiamo molto meglio in studi residenziali come quello, perché quando ci siamo trovati a registrare dischi in studi lontani dal luogo in cui alloggiavamo, abbiamo sempre incontrato grossi problemi. Stando così isolati abbiamo capito perché alcuni dei più grandi album sono nati in luoghi sperduti o dimenticati da Dio.”
Quindi non avete nemmeno interagito con le persone del luogo?
“Diciamo che le montagne spagnole non pullulano di groupies (ride, ndr)! In realtà, invece, ci siamo trovati in quei luoghi proprio nei giorni della grande festa del paese, qualcosa di molto simile a quella celeberrima di Pamplona. Non puoi immaginare come si trasformano comunità che fino al giorno prima sembravano popolate solo di vecchi signori. Era assurdo vedere decine di tori correre per le vie del paese con una massa di ubriachi che cercavano di evitarne le cornate (ride, ndr). Sono situazioni così assurde e fuori dalla nostra cultura che sembrava di assistere ad una totale follia collettiva. Trovo comunque molto bello che il folklore sia una cosa tramandata alle generazioni.
Quest’anno festeggiate il vostro quindicesimo anniversario. Come pensate di celebrarlo?
“Non abbiamo ancora pensato a qualcosa di particolare, anche perché le autocelebrazioni non hanno mai fatto parte del nostro modo di intendere la musica. Un ottimo modo sarebbe sicuramente quello di ritrovarci alla fine dell’anno con uno dei dischi più apprezzati del 2015, ma per questo abbiamo bisogno di tutte le persone che ci hanno sempre aiutato dall’inizio di quest’avventura. Anche se prima ho detto che non abbiamo pensato a compiacere i nostri fan con questo disco (ride, ndr)!”