Nove album da studio, due anni lontani dai palchi (se escludiamo quello del Jesus Christ Superstar) e una voglia spaventosa di dimostrare di essere ancora i migliori: questi sono i Negrita che si accingono a presentare 9 al proprio pubblico. Li abbiamo incontrati nei loro studi vicini ad Arezzo…
Chi credeva che vi sareste seduti sugli allori forse non vi conosceva abbastanza bene. La varietà della vostra proposta è sempre sbalorditiva. Da che viaggio nasce questa volta l’ispirazione?
Drigo: È vero, tra un pezzo e l’altro c’è una differenza abissale, come d’altronde succede in tutti i nostri album: è noto che quella di continuare ad esplorare sia una delle nostre caratteristiche. I nostri album nascono sempre da un viaggio, ma questa volta si è trattato più che altro di un viaggio metaforico iniziato e conclusosi con la nostra partecipazione al musical Jesus Christ Superstar. È stato bellissimo prepararlo e, contemporaneamente, veder nascere il nuovo album, tanto che l’esperienza ci ha fatto crescere anche come musicisti: Pau, perché doveva fare l’attore cantando e noi perché ci siamo trovati a confrontarci con un capolavoro assoluto. Il fatto è che quando ce l’hanno proposto abbiamo detto immediatamente di sì sull’onda dell’entusiasmo, ma quando ci siamo messi a studiare il disco abbiamo capito che non eravamo in grado di suonare una cosa così difficile: abbiamo scoperto che c’erano dei tempi che non conoscevamo, degli spartiti immensi inutili, dato che né io né Cesare sappiamo leggere la musica.
Non un problema da poco a pochi mesi dal debutto…
Drigo: Quasi un incubo, direi. Ci siamo messi quindi ad imparare i brani direttamente dal disco come facevamo al liceo, ma puoi capire la difficoltà di un’operazione del genere con un album del ’71, in cui spesso i suoni erano così impastati da non riuscire a distinguere il suono della chitarra da quello degli altri strumenti. Inoltre, studiavamo su tre versioni dell’opera: quella originale, quella del film con Ted Neeley, con noi sul palco di Roma, e quella a teatro del ’96, la prima ad essere trasposta su pentagramma: prima nessuno ci si era mai messo, visto che ai tempi delle registrazioni erano tutti strafatti e la musica nasceva al momento con mille improvvisazioni. Andrew Lloyd Webber fece quell’operazione perché gli dava fastidio che la cosa più nota dell’opera fosse il film, in cui lui aveva messo mano in maniera marginale. Per noi èla peggiore.
Qual è stato il momento in cui avete capito che potevate farcela?
Drigo: Per quanto mi riguarda, ma credo un po’ per tutti, quando Ted Neeley mi si è avvicinato ala prove durante l’intro di apertura e mi ha fatto vedere la pelle d’oca sul braccio, urlando “facciamolo di nuovo”: ha dato a tutti la carica giusta.
Cesare: In realtà era uno stato d’animo che non riuscivi mai ad assaporare appieno: lo studiare tutte le sere il modo per strappare un applauso, il dover rifare ogni sera gli stessi esercizi come in palestra ti svuotava sia dal punto di vista fisico che da quello emotivo, perché tutte le sere vedevi crocifiggere Cristo, ad esempio. Musicalmente, poi, ti trovavi a dover descrivere i sentimenti di Giuda o Pilato e un attimo dopo quelli della Maddalena. Questo sei giorni su sette, lavorando al nostro disco la mattina successiva.
Quindi, a livello di songwriting, 9 non può che aver subito l’influenza di un’esperienza così intensa.
Pau: Assolutamente sì e il primo pezzo ad esserne influenzato palesemente è stato quello in cui è presente proprio lo stesso Neeley, Ritmo Umano. È il brano più spirituale del lotto ed è nato cercando proprio di sfruttare l’esperienza del musical, spingendoci a scrivere qualcosa di diverso dai classici 2/4, 4/4 o 6/8 con cui abbiamo sempre composto la nostra musica. Quando ormai avevamo quasi concluso la registrazione e mi restava soltanto da affrontare la straziante coda del brano, ho pensato che l’uomo migliore per raggiungere l’apice della spiritualità del brano fosse Ted, proprio come succedeva tutte le sere a teatro. L’incontro con lui è di quelli che ti cambiano la vita: ha sempre una parola buona per tutti, la parola giusta in qualche modo. Abbiamo assistito a scene allucinanti alla fine delle serate, con donne incinte che si facevano toccare la pancia o gente che gli baciava i piedi. La gente è folle, ma lui è così calato nella parte da non far sentire nessuno fuori luogo.
Gesù vi ha fatto trovare anche un nuovo bassista…
Cesare: Esattamente. Frankie ci aveva lasciato nel 2012 e per due anni siamo stati alla ricerca di qualcuno che potesse prenderne il posto. Dopo il tour ci siamo messi finalmente a fare delle audizioni, proprio mentre eravamo impegnati col musical. La provvidenza ha così voluto che nel cast fosse presente Giacomo Rossetti, con cui per mesi abbiamo suonato solo pezzi scritti da altri. La cosa, tuttavia, è tornata utilissima quando ci siamo messi a comporre i nuovi brani, perché la nostra idea era quella di un disco “alla vecchia” per così dire, molto suonato, composto e arrangiato dalla band e ricco di improvvisazioni: cosa che puoi fare solo quando un nuovo membro ha suonato con te per un certo lasso di tempo.
Pau: Tutte le improvvisazioni che senti sul disco, le code lunghissime, le parti strumentali di senza nemmeno una parola sono state possibili solo grazie all’alchimia che si è formata suonando tutte le sere insieme e sono quindi figlie anch’esse del mood e del sound di quell’opera, un vento diverso che ci ha spinto ad un’altra velocità: un viaggio a vela, per così dire. Per quello crediamo che la storia che sta dietro a 9 sia proprio bella da raccontare. Poi è ovvio che abbiamo spaziato anche in altre direzioni, come è giusto che sia.
Una volta composti i brani, è stato il momento di un viaggio non solo metaforico, questa volta in Irlanda.
Pau: Dai viaggi abbiamo sempre tratto ispirazione e consolidamento interno, perché ti portano lontano da tutte le cose della vita e ti permettono di concentrarti solo sulle tue sensazioni. Viaggiare in luoghi a noi sconosciuti ci permette di trovare influenze e idee inedite, compattando allo stesso tempo la band: essendo solo con i tuoi amici, hai modo di assimilare alla stessa maniera il percorso che stai facendo insieme a loro. Dopo un viaggio statico di quaranta giorni al Sistina, abbiamo quindi deciso di andare in Irlanda. In pochissime settimane dovevamo mettere giù l’ossatura dell’album, quindi avevamo bisogno di un luogo ignoto ma che fosse anche residenziale, in modo da non perdere mai la concentrazione. Funzioniamo davvero solo in contesti di questo tipo: anni fa registrammo a Milano e ci rendemmo conto che il tratto urbano che separava la sala prove dall’albergo ci destabilizzava completamente.
Come sono avvenute le registrazioni? La sensazione ascoltando le tracce è che siano state registrate dal vivo in studio.
Pau: Le tracce erano già tutte pronte in Italia, poi lì tutti insieme in cerchio nella sala di ripresa abbiamo registrato le basi: in alcuni casi abbiamo tenuto solo le batterie, ma molto spesso quello che senti su disco è tutto ciò che è avvenuto in quei quattro minuti. Poi ci sono dei brani che ovviamente hanno avuto un trattamento più razionale, come per esempio quelli destinati al circuito radiofonico: un musicista moderno deve tenere in considerazione anche questo, ne va della tua sopravvivenza. Un conto è essere te stesso e creare la miglior musica che possiedi dentro l’anima, un altro discorso è sapere che la devi anche piazzare.
Insomma, ogni tanto bisogna pensare anche al Poser di cui cantate nella terza traccia e che viene a cantare i singoli in concerto…
Pau: No, ogni tanto dobbiamo pensare al poser che c’è in noi in realtà (ride, ndr)!
Drigo: Semplicemente ci siamo resi conto che nel momento in cui per un disco riesci a creare tre hit, poi per tutto il resto dell’album puoi davvero fare quello che ti pare in termini di esperimenti e libertà creativa e credo che al giorno d’oggi questa sia una cosa eccezionale in Italia.
Pau: Penso che nel 2015 sia una libertà davvero conquistata col sudore. Forse nel nostro paese non è mai stato così, ma anche fuori dal nostro paese cose come queste si potevano fare negli anni settanta e ottanta, quando più una cosa era strana e lisergica più magari segnava la storia della musica mondiale e veniva accolta senza pregiudizi o condizionamenti di sorta. Oggi viviamo in un mondo di format, quindi cose come queste sono fuori dal mondo e non potrebbero essere realizzate da band agli esordi o senza una credibilità guadagnata sul campo.
Prima ancora di conoscere la tracklist del nuovo album, le prevendite delle otto date del nuovo tour avevano già registrato cifre da primi della classe. Insomma, ormai siete dei big. Con che animo andate ad affrontarle?
Pau: Diciamo con il giusto mix di emozioni: un po’ te ne devi sbattere, visto che esistono problemi ben peggiori nella vita, però il fatto di avere del materiale nuovo e uno spettacolo completamente rinnovato fanno sì che l’attenzione, la cura e di conseguenza anche le pressioni esistano, in particolare per la prima uscita. Non la prendiamo sottogamba, ma ci dormiamo, mettiamola così. Il segreto sta nel non far vincere uno stato d’animo sull’altro. Non scopriamo certo ora i palasport, visto che li frequentiamo da diverso tempo, ma effettivamente abbiamo avuto tutti la sensazione, tanto la band quanto il mondo esterno, che il tour di Dannato Vivere sia stato qualcosa di diverso, un ulteriore passo in avanti della nostra carriera. Due Forum d’Assago erano cose che non ci accadevano prima…In ogni caso l’ossatura dei nostri live è ben consolidata, i ragazzi che ci seguono sono sempre gli stessi, quindi l’astronave è conosciuta. Solo il tema è diverso e cercheremo di bilanciare bene vecchio e nuovo.
Anche qui torna un po’ il concetto di equilibrio tra la parte più immediata e quella più razionale della band: immagino funzioni così anche per la scaletta dei concerti…
Pau: Oddio, se parliamo di un concetto così credo che siamo ancora molto lontani dall’essere delle persone equilibrate, ma di sicuro ci sono cose che dobbiamo curare nei dettagli e altre dove possiamo lasciare libera la fantasia e l’animalità. Sono entrambe cose che non possono mancare in uno spettacolo. Se in studio talvolta può vincere la parte più beatlesiana, quella che non si preoccupa di come suonerà un brano dal vivo, per il nuovo show abbiamo invece guardato a chi da sempre ci guida: gli Stones. L’idea principale dei nuovi concerti dal punto di vista scenico nasce proprio dal concerto dello scorso luglio al Circo Massimo, cui erano presenti Drigo e Cesare, ma preferiamo che i dettagli si svelino solo dal vivo. Per la scaletta, vale un po’ quello che ti dicevo per i pezzi in studio: bilanciare tutto e probabilmente divedere i brani in compartimenti stagni, per non limitarci a buttare là una manciata di pezzi casuali solo perché sono conosciutissimi dalla gente. Vogliamo dargli una forma precisa, creare un habitat su cui poi poterci muovere liberamente.
Un percorso come il vostro al giorno d’oggi sarebbe irriproducibile. Se nasceste oggi, molto probabilmente vi fermereste al primo album.
Pau: Probabilmente sì. Forse siamo riusciti a nascere e vivere l’ultimo vero fermento creatosi in Italia a livello musicale prima della disfatta totale e dello smembramento in migliaia di sotto gruppi incapaci di creare vere e proprie scuole. La nostra sostanzialmente purtroppo è morta lì, non è riuscita a figliare e a portare avanti un discorso che ai tempi ci sembrava più che avviato. Da nord a sud, ovunque andassi trovavi delle scuole: dai Ritmo Tribale agli Afterhours, dagli UZ ai Fleurs Du Mal, dagli Almamegretta ai 99 Posse. Prima di noi c’erano stati dei padri riconosciuti come i CCCP o i primi Litfiba, dopo nessuno ha sfruttato quel momento.
Drigo: La frattura grossa è avvenuta con la morte di Kurt Cobain: prima la rivoluzione grunge aveva unito tutta la nostra generazione e ci aveva convinto che il rock o il crossover avrebbe guidato le classifiche e riportato quel vento di protesta e cambiamento che ne aveva sempre caratterizzato l’essenza più pura e, per qualcuno, ingenua. Invece quell’evento fu devastante.
Dopo più di vent’anni, vi siete chiesti quale sia il segreto della vostra longevità e della continua ascesa di cui siete protagonisti?
Pau: Siamo rimasti delle pecore nere, degli outsider, soprattutto per quanto riguarda i generi che affrontiamo e siamo gli unici ad essere rimasti molto legati ad un certo tipo di rock che da noi non si fa più da tanti anni. A volte rischi di essere giudicato per quel tipo di cultura, ma è anche quello che ti permette di avere una trasversalità che alla fine paga. Inoltre, rimanere nelle nostre terre, in questo ambiente particolare che non viveva le mode e le direttrici del momento, alla fine ci ha preservato. Come se paradossalmente la provincia ci abbia permesso di non ghettizzarci.