Nonostante l’infinità di polemiche legate all’utilizzo di un moniker che per molti dovrebbe rimanere relegato al periodo in cui Freddie Mercury (e John Deacon!) militavano nel gruppo, la scelta di Brian May e Roger Taylor di proseguire la carriera della Regina con nuovi cantanti non può certo definirsi fallimentare. Tutt’altro. I pregiudizi intorno al ritorno in tour dei due musicisti britannici restano, nemmeno a dirlo, legati alla scelta di portare con sé un ex concorrente di American Idol. Che lo si voglia considerare un sacrilegio o meno, partiamo subito col dire che l’esperimento è riuscito appieno e la scommessa pienamente vinta. I Queen non sono mai stati amatidalla critica, nemmeno quando a cantare era, secondo la definizione di Sir Mick Jagger, il più grande frontman della storia della musica. Difficile dunque immaginarsi giornalisti e addetti ai lavori spellarsi le mani per applaudire il nuovo combo anglo/americano.
Invece, alla fine della serata, non era semplice trovare qualche presente al Forum che non fosse più che convinto della validità e della credibilità di uno show magniloquente, talvolta esagerato e, perché no, oltre le righe per gran parte del tempo. Supportata da unpalco come non se ne vedevano da tempo in un loro tour, la band si presenta all’Italia in grande spolvero, nonostante fino a pochissime ore prima dell’apertura del concerto la salute di Adam Lambert avesse lasciato aperta la possibilità di una cancellazione, come avvenuto qualche giorno prima a Bruxelles.
La scaletta è talmente “Queen dal vivo” da apparire quasi un omaggio al Live Magic e, come da pronostici, l’opener One Vision fa partire un karaoke che terminerà solo due ore e mezza dopo con We Are The Champions. Autocelebrativi e autoindulgenti come giusto che sia, Brian e Roger appaiono tuttavia come dei gregari di classe, dimostrando ancora una volta di possedere un’umiltà rara in un mondo dove spesso bastano due singoli di successo per non salutare più nemmeno la propria madre: in particolare May sembra il più rinvigorito dalla presenza di una figura come Lambert, con cui evidentemente si trova a proprio agio e che spesso lo spinge ad andare oltre ilimiti di un’età che ormai lo porta alla soglie dei settanta.
La dimostrazione più lampante è forse la sorprendente Stone Cold Crazy, che onestamente non credevo si potesse sentire ancora dal vivo a più di quarant’anni dalla pubblicazione: tirata, cattivissima e sul finale davvero al limite sia per il chitarrista che per Roger Taylor. A proposito del batterista, la scelta di portare con sé il figlio Rufus Tiger (mai nome fu più tamarro) è risultata vincente: la competizione col rampollo ha costretto il buon Roger agli straordinari per non sfigurare, portandolo più di una volta sull’orlo dello sfinimento, ma con un sorriso sui saluti finali in grado di dirla lunga sullo spirito dell’intera operazione. Rufus dimostra di avere talento e dei discreti attributi, soprattutto quando si trova a suonare la batteria al posto del padre impegnato a cantare (a tal proposito, da brividi la sua performance vocale su A Kind Of Magic).
C’è anche tanto mestiere, inevitabilmente: tanti gli assoli che permettono alla voce malconcia di Lambert di recuperare energia senza far perdere un briciolo di tensione. Il momento più intenso? Forse la parte del centrale dello show, quella in cui il ragazzo prodigio lascia il palco per permettere ai suoi idoli di commuovere i diecimila presenti con una sezione semi acustica in cui spicca la classica conversazione tra Brian May e il pubblico, preludio a Love Of My Life, e una straziante Days Of Our Lives, con un solo di May a cui bisogna inchinarsi.
Due parole doverose nei confronti del grande imputato della serata, Adam Lambert. Il ragazzo ci sa fare davvero e, sorpresa, nonostante la spiccata teatralità della sua performance, è molto meno prima donna di Paul Rodgers: si cala totalmente nella parte, con vestiti eccessivi e un’americanità che fa capolino di continuo e che, a conti fatti, si sposa alla perfezione con la regalità degli illustri colleghi. Cosa da non sottovalutare, poi, è che il ragazzo possieda due palle giganti che gli consentono di apparire a proprio agio in uno dei ruoli più difficili da ricoprire nel music business. La gente se ne rende conto e apprezza in modo sincero: Freddie non si sostituisce, ma gli omaggi sono sempre bengraditi.
Inutile sottolineare come il fantasma di Mercury aleggi sul palazzetto fin dalla prime note, ricordato in continuazione dalle immagini dei megaschermi e dalle parole affettuose dei due amici e dello stesso frontman, che non perde occasione di ringraziare tutti per la possibilità concessagli. Sulle note di God Save The Queen che, come da tradizione, chiudono la serata, è inevitabile pensare che potrebbe essere l’ultima volta, ma al dodicenne che c’è me piace pensare che possano vivere per sempre.
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