Le cattive abitudini saranno (forse) scomparse, così come il lato animalesco della sua personalità, ma quel ghigno perenne stampato su uno dei visi più iconici della musica anni ottanta dimostra che l’anima ribelle e lasciva di Billy Idol sia ancora tra noi. Kings & Queens Of The Underground è forse il suo album più personale.
Ormai nessuno pensava più di ritrovarsi tra le mani un tuo album di inediti: sembrava che ormai il fuoco si fosse un po’ assopito. Cosa ti ha spinto di nuovo alla scrittura?
“Sembra un gioco di parole, ma è stata la scrittura stessa a spingermi verso la scrittura di nuovi brani. L’album, infatti, è nato praticamente insieme alla mia autobiografia, quindi potrebbe essere considerato un po’ l’ascolto ideale durante la sua lettura. Aprirmi così tanto, andare a scavare in un passato che spesso è stato davvero divertente, talvolta esilarante, ma che allo stesso tempo mi ha portato vicino alla morte innumerevoli volte è stato davvero intenso. Le canzoni nascevano dunque quasi in contemporanea con il libro, quasi come fossero delle note a pie di pagina. È inutile nascondersi, ormai sono un sessantenne, quelli che quando andavo a vedere i primi concerti per me erano a un passo dalla tomba. Ero stupido forse, ma quelli erano anche altri sessantenni…”
Era proprio quella classe fascista e borghese che faceva dire a Rotten che non ci sarebbe stato alcun futuro. Libro e disco rendono più volte omaggio ai Sex Pistols.
“Io stesso sono un omaggio vivente a Johnny e ai Sex Pistols. Ancora oggi mi incazzo e perdo le staffe con chi mi dice che il loro valore è stato amplificato dalla storia o che non avevano nulla a che fare con la musica e tutta una serie di stronzate di questo tipo. Se non hai vissuto quel momento storico, se non ti sei sentito come ci sentivamo noi in quel preciso istante, non potrai mai capire l’importanza per la nostra generazione di quel messaggio. Chi dice che molti altri gruppi punk sono stati più importanti sa di mentire e lo fa perché magari è cool dirlo oggi, ma è la storia a dire che un personaggio come John Lydon ha la stessa importanza che viene attribuita a Elvis, altra figura di rottura totale di ogni schema esistente all’epoca.”
Quindi la tua ispirazione in qualche modo arriva ancora dalle stesse radici di un tempo?
“Quando in Kings & Queen Of The Underground ringrazio i Pistols per avermi ispirato così tanto torno immediatamente in quel buco di culo in cui li vidi quarant’anni fa. Probabilmente fu un po’ quello che successe a chi vide i Velvet Underground dieci anni prima: mi dissi che se lo potevano fare loro, avrei potuto anch’io dire la mia senza preoccuparmi della forma in cui lo facevo. Il concetto di libertà non era mai stato così chiaro, nemmeno gli hippies erano riusciti a spiegarlo così bene e in modo così incisivo, pur essendo uno dei loro principi assoluti. Scrivere la storia della mia vita ha riaperto tanti cassetti ormai sigillati, facendomi allo stesso tempo capire che forse sono meno stupido, ma la rabbia proviene sempre dallo stesso punto.”
Dalle tue parole traspare una consapevolezza inedita. Hai raggiunto una sorta di pace interiore nonostante il fuoco sia ancora presente?
“Per me può forse valere un po’ il paragone con il protagonista di Arancia Meccanica, nel senso che alla fine della storia non capirai mai bene quanto e come io sia effettivamente cambiato (ride, ndr). Sono stato spesso un coglione, ero un tossico, quindi era inevitabile che lo fossi in molte circostanze. Ho corso il rischio di rovinare tutto più volte, ho distrutto rapporti e rischiato che invece che la mia musica alla gente arrivassero i miei comportamenti distruttivi e antisociali. Invece ho avuto la fortuna, o il merito, di riuscire a lasciare un segno molto importante nella storia della musica e questo mi permette di non avere rimpianti. Quando ho detto basta agli oppiacei ho abusato per dieci anni di coca, ora ogni tanto mi sbronzo: chi è stato un junkie, in qualche misura lo sarà sempre.”
Credo che quello che rende Kings & Queens Of The Underground il tuo album più personale e introspettivo sia proprio l’estrema sincerità che lo permea.
“Ho fatto album migliori e album peggiori. Di alcune cose che ho pubblicato non riesco nemmeno più a guardare le copertine, ma mi rendo conto che sia inevitabile nell’arco di più di trent’anni. Spesso ho scritto cose fantastiche in stati di alterazione della coscienza e altre volte nello stesso stato ho composto canzoni che nemmeno un bambino di tre anni… L’unica cosa che ho compreso è che fingere non ha alcun senso, così come voler ripetere se stessi perché la cosa ha funzionato una volta. È svilente e col tempo la gente se ne accorge. Ho preferito sbagliare ma seguire sempre quello che volevo fare davvero: questa volta si sono aggiunte l’età e l’aver tirato un po’ le fila di tutto.”
Be’ indubbiamente i testi delle nuove canzoni non hanno più chiavi di lettura come hai confessato avere un brano come Dancing With Myself…
“So che quella è una delle cose più strane e divertenti di cui ho parlato nel libro. Alla fine degli anni settanta le discoteche in Giappone erano dei luoghi totalmente surreali. Tutti erano vestiti come in Saturday Night Fever, ma la cosa più allucinante è che ognuno ballava con la propria immagine riflessa in uno specchio e non con le altre persone. Prova ad immaginare che scena surreale per gente che arrivava dall’occidente. Ballavano a tutti gli effetti con se stessi. I giapponesi sono davvero strani: è una popolazione che adoro davvero, ma sono totalmente pazzi (ride, ndr)! Ad ogni modo, qualche giorno dopo, parlando con Tony James (bassista dei Generation X, ndr), lui se ne uscì con quel titolo e io mi misi a scrivere subito quella che poi è diventata una delle mie canzoni più note.”
Quindi tutti i riferimenti alla masturbazione, cui da sempre il pezzo pare legato, svaniscono così?
“Credo che un sacco di persone abbiano sempre pensato che quel ballare con se stessi fosse un chiaro riferimento all’atto masturbatorio e se ci pensi questo è proprio il bello delle canzoni, perché ognuno ci può vedere quello che vuole. Però tutto nasce da quell’esperienza alienante, in cui compresi davvero la solitudine e la disaffezione che quei ragazzi avevano nei confronti di tutti gli altri presenti nella discoteca e della loro stessa immagine riflessa, quindi di se stessi. In qualche modo può essere visto come qualcosa di legato alla masturbazione, ma non in senso sessuale stretto, ma bensì legato all’atto di auto isolamento che quell’immagine mi diede. La masturbazione stessa, quando esce da canoni precisi, diventa patologica e sintomo di disagio.”
Insomma, dicevi di non ricordarti praticamente niente della tua vita, mentre invece la tua memoria ha retto bene. Quando finisce la rockstar e inizia l’uomo?
“Quella era una frase che dissi tempo fa parlando della realizzazione del libro, ma fu più una battuta che altro. So che detta in quel modo poteva sembrare la classica sparata da rockstar che vuole farti intendere che la sua vita dissoluta l’ha portato a dimenticare la metà delle cose che ha fatto. In realtà molte cose le ho dimenticate davvero, così come credo qualsiasi altro artista che abbia scritto un’autobiografia. Credo che in questo senso il mondo si divida in due: chi ostenta vizi e aneddoti più o meno piccanti, quasi a far vedere di non aver subito alcun danno e chi invece certe cose addirittura le nasconde. Diciamo che non ho mai amato nessuna delle due strategie e ho cercato di non mettere censure, ma allo stesso tempo di mettere in piazza anche debolezze ed errori. Così come nei testi del disco.”
Infatti in entrambi i lavori ti trovi anche spesso a scusarti con le persone cui hai nuociuto con i tuoi comportamenti. Ti è servito a riappacificarti con loro?
“Diciamo che in primis probabilmente è servito a riappacificarmi con me stesso, per via di quella componente egoistica che comunque interviene quando si porgono delle scuse. E poi devo dire che a molti di quelli di cui parlo ho già chiesto scusa nel tempo e non ho aspettato di pubblicare un libro per farlo. Sicuramente l’episodio più eclatante resta quello della copertina di Rolling Stone del 1984, per il quale non finirò mai di scusarmi con la giornalista cui la redazione aveva affidato l’articolo di copertina: fui un vero stronzo.”
Cosa successe nello specifico?
“Be’, iniziamo col dire che ero ubriaco marcio. Avevo bevuto una quantità di vino imbarazzante e il tutto si univa alle droghe di cui mi facevo quotidianamente. Quel giorno, inoltre, ero di pessimo umore e le sostanze non fecero altro che amplificarlo a dismisura: il risultato fu che gettai una montagna di merda su Rolling Stone e chi ci lavorava. E dire che non avevo mai avuto una brutta considerazione della rivista, anzi avevo apprezzato molto anche la campagna che avevano fatto a favore della cittadinanza americana a John Lennon. Erano andati apertamente contro Nixon e senza girarci troppo intorno, dimostrando di avere davvero le palle. Non mi comportai da bambino viziato, credevo solo davvero che non ci fosse futuro per la mia generazione.”