Un nuovo album dei Mr. Big è sempre un piacere per le orecchie, non solo quelle degli amanti del tecnicismo esasperato o di chi è cresciuto con la loro musica, ma anche per tutti coloro che semplicemente amano la buona musica e le inconfondibili melodie vocali. Il bassista Billy Sheehan ha parlato con noi di Stories We Could Tell.
Il titolo è molto semplice ma efficace. Storie da raccontare: un po’ quello che avviene in ogni album, ma anche un invito a sedersi con voi intorno ad un falò con la curiosità di quando eravamo bambini.
“Volevamo un titolo immediato ma non banale, così abbiamo pensato che sostanzialmente nella nostra carriera avevamo macinato migliaia di chilometri, suonato decine e decine di note, ma sempre e comunque solo per raccontare delle storie. E l’idea di sedersi idealmente intorno ad un fuoco a sentire le storie dei ragazzi più grandi ci può stare, perché è un momento che tutti abbiamo vissuto e da cui tutti abbiamo tratto qualche insegnamento. Il titolo vuole essere un invito alla condivisione delle cose, all’aggregazione e come sempre anche al divertimento, che spesso viene vissuto come elemento di pura futilità, ma che è fondamentale.”
Quindi vi sentite ormai simili a dei vecchi saggi che hanno il compito di tramandare qualcosa alle nuove generazioni?
“Vecchi iniziamo sicuramente ad esserlo…Tuttavia sulla saggezza preferisco non pronunciarmi (ride, ndr)! A parte gli scherzi, non credo di avere chissà quale esperienza da trasmettere a chi mi ascolta, ma è comunque bella l’idea di convocare idealmente i nostri fan e far sentire loro qualcosa che magari può accendere una scintilla da cui far iniziare qualcosa, sia dal punto di vista prettamente musicale, che da qualsiasi altro. Ora però non prendiamo la questione del raccontare storie come una cosa di una serietà infinita, è solo un cazzo di titolo (ride, ndr)! È semplicemente bello essere tornati per l’ennesima volta insieme nello stesso studio a fare quello che ormai facciamo da trentacinque anni a questa parte e ritrovarsi stupidi ma entusiasti come se fosse la metà degli anni ottanta.”
What If… venne accolto come uno dei dischi migliori di quell’anno, dimostrando che un distacco di qualche anno non poteva scalfire un rapporto così intenso. Quanto si differenzia da Stories We Could Tell?
“Sostanzialmente non più di tanto, anche perché non potevamo tornare con un album hip hop o black metal (ride, ndr). Se dovessi parlare di qualche differenza effettiva ti direi che qualche cambiamento l’ho avvertito in fase di registrazione, dove ormai quelle piccole incrinature che potevano esserci dopo tanti anni senza suonare insieme sono completamente sparite. In effetti, lavorare a What If… fu straordinario, perché fu come fare un salto indietro nel tempo anche a livello emotivo. Non che avessimo pressioni, ma la voglia di dimostrare di essere ancora noi devo ammettere che fosse molto presente ai tempi. Poi c’era la questione di Paul, che non suonava con noi da molto più tempo, ora invece sembra di non essersi mai lasciati.”
Quindi i classici stilemi dei Mr. Big sono tutti presenti…
“Per forza di cose! Noi sappiamo fare questo e credo che abbiamo dimostrato di saperlo fare anche abbastanza bene, quindi in questo momento della nostra vita e della nostra carriera non avrebbe senso fare altre cose, anche perché nessuno di noi ha questa esigenza. Ti sei mai chiesto perché ognuno di noi abbia tutti questi side project? Uno, perché non riusciamo a stare un giorno senza salire su un palco, ma in particolare non puoi capire quanto questo possa giovare alla musica della band: tutte le sperimentazioni, gli sfizi, le cazzate, le facciamo in quel modo. Quando ci rimettiamo insieme a comporre musica abbiamo così voglia di Mr. Big che tutto esce in modo naturale.”
Certo che però questo ci fa attendere di più per poter risentire nuovo materiale.
“In qualche modo è il prezzo da pagare per poter avere del materiale fresco. Credo che un uomo medio possa attendere tre anni un album dei Mr. Big senza che questa cosa gli causi danni permanenti ad organi vitali, ma mi rendo conto che oltre queste tempistiche i rischi aumentino in maniera esponenziale (ride, ndr). Detto ciò, preferisco che un fan mi dica che non ce la fa più ad aspettare un mio nuovo disco, piuttosto che sentirmi dire che non ce la fa più ad ascoltare la mia musica perché tutta uguale. Inoltre credo che uno dei problemi del music business odierno sia proprio la scomparsa del concetto di attesa, che poi è quella che crea vendite e partecipazione ai concerti. Se girassimo ogni anno per dieci anni, alla fine la gente si romperebbe le palle.”
È paradossale, perché negli anni settanta le grandi band pubblicavano anche due dischi nello stesso anno. Deve essere qualcosa di più grande della semplice attesa.
“È verissimo, infatti è una concatenazione di cause a creare tutto quello in cui siamo immersi. Devi pensare che l’esempio dei grandi gruppi degli anni sessanta e settanta è ficcante, ma dietro c’erano aspetti che non si possono trascurare: intanto c’erano delle case discografiche che spingevano affinché il mercato si riempisse di nuovi album da dare in pasto al pubblico, visto che le vendite erano altissime e poi, aspetto cui talvolta non si pensa, la qualità media di un prodotto era elevatissima. Oggi il mercato è saturo di brutta musica. La cosa secondo cui oggi il mondo è pieno di super band che non riescono ad uscire per via della troppa concorrenza e di internet lascia un po’ il tempo che trova, la verità è che più musica in giro non significa per forza più buona musica.”
Non pensi però che un tempo le case discografiche avessero una filosofia diversa nei confronti di gruppi al primo album? Ora se il primo disco non vende subito si cambia semplicemente artista.
“Questo è il dramma del consumismo applicato all’arte. Ai tempi i discografici probabilmente erano una massa di cocainomani che giravano in limousine circondati da mignotte, però tra quelli c’erano anche dei veri e propri geni, gente che faceva i soldi come gli altri, ma scoprendo e dando fiducia a gruppi che hanno cambiato per sempre la storia della musica popolare e dei costumi mondiali. Gente che rischiava spesso tutti i propri soldi, perché dietro c’era un vero e proprio amore per la musica. Oggi nessuno produce qualcosa per amore, ma solo per mero guadagno, come se stessimo parlando di IPhone o cose di questo tipo e non di esseri umani. C’è così tanta gente alla porta, che il concetto di indispensabilità è diventato ancora più irreale.”
Tornando alla vostra musica, non vi dà fastidio il fatto che quando si parli di voi venga spesso messo in evidenza l’aspetto del tecnicismo rispetto a quello del songwriting?
“Siamo da sempre una band amata in primis dai musicisti e questo per noi non può che essere un immenso complimento: se provassi a fare un’inchiesta durante uno dei nostri show, scopriresti che quasi chiunque dei presenti è un musicista. Non c’è niente da fare, è stato sempre così. Capisco quindi quando la critica sottolinea questo aspetto. Tuttavia è anche vero che per noi il processo di songwriting sia altrettanto fondamentale, perché crediamo che non si possa prescindere da quello. Fare album ultratecnici ma senza melodie o costruiti per dimostrare quanto siamo bravi non avrebbe alcun senso, anche perché sarebbero incantabili. Il top sta sto proprio nell’unire quell’aspetto ai testi di Eric e alla sua vocalità: è per l’unione delle due cose che siamo ancora qui.”
Credi che senza quello hiatus oggi sareste molto più noti di quanto siete?
“Semplicemente credo che tutto avviene perché deve avvenire. Sono cose inutili da pensare e francamente devo dire che ora come ora siamo così conosciuti che non credo saremmo riusciti ad arrivare molto più in là. Devi sempre pensare che non siamo mai stati una band da singoloni, a parte forse in pochissimi casi, quindi non c’è nemmeno mai stata l’intenzione di riempire gli stadi tipo Bon Jovi. Poi, come dicevamo prima, di sicuro non abbiamo fatto in tempo a stancare la gente, che ha sempre mantenuto quella voglia di rivederci insieme nella formazione originale. Vedi che il concetto di attesa resta fondamentale nel music business (ride, ndr)?”
Abbiamo appena saputo della bruttissima notizia circa le condizioni di salute di Pat Torpey. Immagino che la cosa abbia unito ancora di più la band…
“È stata una notizia devastante, non puoi immaginare come mi sono sentito nel momento in cui la cosa ha iniziato a diventare palese. Lo sapevamo da un po’, alcuni sintomi erano già presenti da tempo, ma ora la situazione è peggiorata un po’, quindi Pat dovrà combattere con grande forza per continuare ad avere una vita simile a quella che ha in questo momento. Di sicuro può contare su una splendida famiglia e su di noi, che non lo abbandoneremo mai. È un combattente, forse il migliore tra tutti noi da questo punto di vista, tanto che è lui a consolarci. Vuole continuare a suonare come ha sempre fatto e credo che questo sia l’unico modo per mantenere la serenità che ha sempre avuto.”