In pochi credevano che Tom Scholz sarebbe riuscito a dare alla luce un nuovo capitolo della straordinaria carriera dei Boston dopo il suicidio di Brad Delp. Invece, a distanza di undici anni da Corporate America, il geniale chitarrista si ripresenta ai propri fan con un lavoro sorprendente. Eccone svelati i segreti.
Siamo onesti, ormai sembrava impossibile poter recensire un nuovo album dei Boston. Quale è stata la molla che ti ha spinto ad andare avanti e, soprattutto, ci hai messo davvero dieci anni a mettere insieme le tracce come hai dichiarato?
“La domanda mi stupisce: la storia dei Boston dimostra che la speranza nei confronti della band non deve mai venire meno (ride, ndr). Se in trentacinque anni abbiamo pubblicato cinque dischi, vuol dire che tutto è possibile. La verità è che sono troppe le ragioni per cui tra Corporate America e Life, Love & Hope sono passati più di dieci anni: innanzitutto, come puoi immaginare, la morte di Brad mi ha fatto chiedere più volte se avrebbe avuto un senso far uscire qualcosa di nuovo; d’altra parte, però, non volevo che la carriera della band rischiasse di concludersi con un album che, col senno di poi, era chiaramente inadeguato a ricoprire quel ruolo. Sono convinto che Corporate America contenesse alcuni ottimi pezzi, ma nel complesso non funzionò per niente.”
Per questo hai deciso di recuperarne alcuni per Life, Love & Hope?
“Esattamente. In parte per rendere giustizia ad una manciata di brani che erano stati eclissati da un album non riuscito al cento per cento e poi per celebrare in qualche modo l’arte di Brad, che doveva essere ricordato nel modo migliore, quindi sul migliore album dei Boston da moltissimi anni a questa parte. Se per quanto riguarda Didn’t Mean To Fall In Love mi sono limitato a rimasterizzare il brano, dandogli una nuova veste ma tenendolo identico alla prima versione, con Someone ho recuperato quello che era l’arrangiamento iniziale, rendendola a tutti gli effetti una versione 2.0 che stupirà chi già la conosce da anni. Era un mio grande rimpianto, ora finalmente la notte posso dormire tranquillo.”
A quanto pare, invecchiando non sei cambiato minimamente: sei sempre il solito perfezionista maniacale…
“Credo che allo stesso tempo sia il mio più grande difetto, ma anche il mio pregio più evidente. Questo è sicuramente il motivo per cui ci ho messo mediamente sempre circa otto anni per pubblicare un nuovo album, ma allo stesso tempo quella maniacalità mi ha anche permesso di creare un sound riconoscibilissimo, un trademark che mi rende orgoglioso e che mi fa capire che nella vita non ho sbagliato proprio tutto. Inoltre, questo aspetto mi fa essere il più grande critico di me stesso, impedendomi di credere troppo nelle mie capacità e nella benevolenza dei fan.”
La cosa che colpisce maggiormente rispetto all’ultimo album è la presenza del classico suono Boston, che sembrava perduto dopo i primi tre album. Un suono da cui talvolta sei sembrato scappare.
“Si è fatto tanto parlare di quel suono che forse negli anni ho finito per cercare di fuggire da quello stereotipo. Non so spiegare il meccanismo mentale dietro ad alcune scelte: un po’ c’era la voglia di non rimanere intrappolato in quello che tutti volevano da me, ma non so dirti in modo perfettamente razionale cosa mi passasse per la testa. Quel che è certo che io per primo sono sempre stato davvero orgoglioso di quel sound, quindi mi sembra di essere tornato a casa.”
Pur non essendo un concept album tout court, è evidente che il filo conduttore del disco sia proprio la convinzione che, nonostante tutto, si debba andare avanti con la stessa passione e voglia di lottare. È così?
“Penso proprio di sì. Anche i pezzi recuperati dal disco precedente rientrano perfettamente nel mood del disco e confermano che le tematiche dell’album non sono nate solo dopo la morte di Brad. Il vero tema del disco, che poi è espresso perfettamente nella title track, è proprio quello che talvolta solo eventi davvero traumatici riescono a farci capire cosa sia davvero importante nella vita e che la vita, anche nei momenti in cui sembra più infame, ti sta sempre insegnando qualcosa.”
Possiamo definirlo il tuo album più personale?
“Probabilmente si tratta del mio album più introspettivo, quello in cui sono riuscito maggiormente ad esprimere i miei sentimenti riguardo alle cose più disparate. Sia che si parli di eventi drammatici, sia che mi stia rivolgendo a mia moglie Kimberly, i testi di Life, Love & Hope scavano dentro il mio animo e, talvolta, persino nel mio inconscio. Come avrai forse notato, ho cantato in prima persona i brani che sento davvero più personali, con la sola eccezione della title track, per la quale mi sembrava più adatta la voce di Tommy Decarlo.”
Toglimi una curiosità: ma la storia secondo cui non ascolti musica altrui dai tempi del primo album dei Boston è vera o hai giocato un po’ con la tua immagine di recluso tra i tuoi mille apparecchi elettronici per chitarra?
“(Ride, ndr) No, è verissimo! Ti giuro che non è una posa o un modo per screditare altri musicisti. Ho ammesso in tutta sincerità di non conoscere praticamente nulla di quello che è accaduto in musica dal 1974 ad oggi. So che può sembrare uno scherzo o qualcosa detta da un musicista saccente, ma ti giuro che è la verità. Non ho mai voluto che la musica di altre band potesse influire sul mio processo creativo, quindi ho volutamente cercato di escludere ogni tipo di influenza esterna. Non ascolto musica in macchina, né possiedo la radio a casa: gli unici momenti in cui mi capita di sentire qualcosa è in qualche locale pubblico o quando vado in palestra, dove non posso obbligare i proprietari a spegnere gli speaker (ride, ndr).”
Ma non posso credere davvero che tu non abbia mai sentito parlare di Andy Summers dei Police o The Edge degli U2! Sono considerati tra gli ultimi innovatori dello strumento, proprio come si diceva di te agli esordi!
“So chi sono gli U2 e i Police, è chiaro. Ma non ho assolutamente idea di come suonino i loro album, né di come questi due musicisti abbiano influenzato l’approccio allo strumento di chi è arrivato dopo di loro. Ti posso parlare di chi è arrivato prima di me, quello sì. Posso parlarti di Eric Clapton, di Jimmy Page o di Jeff Beck. Di loro sì che potrei parlarti per tanto tempo, perché nei primi anni settanta non ascoltavo molto altro oltre a loro. Ma già allora mi rendevo conto che in qualche modo venivo influenzato dalla musica con cui venivo a contatto e io volevo essere originale, volevo che chi sentiva la mia musica potesse dire che si trattava di qualcosa di mai sentito.”
Però avrai sentito dire che Kurt Cobain si sia ispirato a More Than A Feeling per il riff di Smell Like Teen Spirit…
“Questo sì, lo ammetto. Mi venne detto ai tempi e volli andare a sentire di cosa si trattasse. Non conosco molto materiale dei Nirvana, ma quello che ascoltai mi fece capire immediatamente di trovarmi di fronte ad uno di quei gruppi che cambiano la storia. Non ci vuole molto a capirlo, basta lo stomaco. Il fatto che spesso suonassero il riff di More Than A Feeling prima di suonare la loro canzone non può che riempirmi d’orgoglio.”
Anche questa volta hai tenuto a sottolineare di non aver utilizzato nemmeno una delle possibilità che la nuova tecnologia offre ai musicisti odierni. Hai utilizzato le tue classiche chitarre e la strumentazione di un tempo. Sei sempre stato un innovatore, oggi sei contro le novità?
“So che può sembrare una contraddizione e che posso passare per un restauratore, mentre un tempo venivo visto come una sorta di alieno. Molto spesso incontro musicisti che mi dicono che si sarebbero aspettati di vedermi giocare con tutto quello che la tecnologia ha portato in musica negli ultimi anni, ma si dimenticano che sono sempre stato contro l’utilizzo di diavolerie come i sintetizzatori, per esempio. Ho sempre lavorato sul suono della chitarra, ma parliamo di ben altra cosa rispetto al fatto di creare musica al computer o di registrare in digitale, forse la peggior porcata della musica moderna.”
Quindi non credi che per essere innovativi si debba sperimentare con le nuove armi a disposizione?
“Credo innanzitutto che essere innovativi oggi sia quasi impossibile. Pensa a quante cose sono state dette e in quanti modi diversi. Proprio per questo ti dico che non ascolto nulla da decenni, perché già spesso rischio l’autoplagio, pensa se fossi anche sottoposto ad input esterni. Oggi come allora lavoro con gli stessi strumenti, con gli stessi effetti e le stesse chitarre, che risalgono quasi tutte alla fine degli anni sessanta. Bisogna accettare che, per alcuni aspetti, il top sia stato già raggiunto, quindi la ricerca esasperata di qualcosa che aiuti chi fa musica porta solo ad inaridire il talento delle nuove generazioni.”
Pensi mai che ogni disco potrebbe essere l’ultimo?
“Certo che ci penso, anche perché come vedi sono in grado di far passare undici anni tra un album e l’altro (ride, ndr). Al di là di tutto, sono consapevole del passare degli anni e del fatto che Life, Love & Hope potrebbe anche essere l’ultimo album dei Boston, ma ti confesso che ora potrei accettarlo con animo più sereno.”