L’ascesa rapidissima che ha visto gli Alter Bridge passare dai piccoli club ai grandi palazzetti europei e non, ha davvero pochi eguali nella storia recente del panorama musicale mondiale. Se AB III aveva soddisfatto più i fan che la stessa band, con Fortress Myles Kennedy, Mark Tremonti e compagni sembrano aver trovato la formula perfetta per la loro proposta. Molto più aggressivo che in passato, ma col solito carico di melodia, l’album ci viene raccontato dallo stesso cantante, sempre più considerato uno dei migliori performer del decennio.
All’uscita di ABIII dichiarasti che l’approccio con cui avevate affrontato le registrazioni del disco fu molto differente rispetto a quello che portò alla nascita di Blackbird. Parlasti di maggior spontaneità e di meno calcoli. La sensazione è che sia andata più o meno così anche questa volta…
“La cosa è molto strana, perché dopo il successo di Blackbird il timore più diffuso tra chi ci circondava era proprio quello di impiegare troppo tempo per dare alla luce un successore. Era un pensiero che, pur rimanendo quasi sempre implicito, inizialmente ci creò qualche problema. Sai com’è…Sono proprio le cose non dette, ma che sai benissimo che vengono pensate da chi ti sta intorno, a creare più problemi. In realtà noi avevamo già superato quel momento proprio con il secondo album, che sapevamo bene avrebbe rappresentato un po’ l’ultima spiaggia per la band. Il primo disco era stato recensito molto bene, ma anche se ora tutti ne parlano, in realtà non erano poi così molti quelli che realmente lo possedevano al momento dell’uscita. Credo che non ci ritroveremo più ad affrontare la gestazione di un album come accadde ai tempi di Blackbird, almeno per quanto mi riguarda. Sai, gli altri un piano b ce l’avevano, per me sarebbe stata la fine del sogno.”
E tu, tra l’altro, eri già stato molto vicino all’idea di abbandonare la musica solo qualche anno prima…
“Esattamente. Anzi, l’idea era proprio matura, non possiamo nemmeno parlare di vicinanza (ride, ndr). Mi ero ormai persuaso che il mio momento fosse definitivamente tramontato, mi sentivo finito tanto come musicista che come autore, ero talmente convinto del fallimento che arrivai alla completa aridità creativa: per quanto ci provassi, non avevo più niente da dire. In realtà di cose da dire ne avevo ancora molte, anzi probabilmente non ne avevo ancora detta nessuna come avrei voluto, ma lo capii solo tornando nella mia città natale e cercando di tornare vergine dal punto di vista musicale. Ho ricominciato completamente da zero, prendevo il mio strumento e andavo a prendere lezioni, proprio come facevo quando avevo quindi anni. Fu un momento molto difficile per me, ma allo stesso tempo credo che mi abbia aiutato ad affrontare meglio il carico di pressioni degli ultimi due anni. Poi, come sai, arrivò la chiamata di Mark Tremonti e la mia vita svoltò definitivamente. Se fosse giunta qualche mese prima, col morale atterra che mi ritrovavo, probabilmente oggi gli Alter Bridge avrebbero un altro cantante.”
Invece, fortunatamente, siamo qui a parlare di Fortress. Non è scontato che il singolo scelto come apripista per un album ne rispecchi appieno l’anima, mentre Addicted To Pain ne è forse il miglior riassunto.
“È vero, Fortress è sicuramente l’album più duro che abbiamo composto fino ad ora, quello con le sonorità che si avvicinano maggiormente al metal tout court, anche se basta un solo ascolto per ritrovare le nostre melodie e quella musicalità che credo abbia fatto breccia nella nostra fan base. Sostanzialmente siamo sempre stati un ibrido, come è normale che sia per una band che si forma quando i membri non sono più dei ragazzini ed hanno vissuto esperienze significative. I Creed erano già un gruppo da milioni di copie negli States, quindi qualcuno di noi sapeva già come affrontare il successo, per quanto mi riguarda, invece, dalla mia parte ho avuto l’età. Sono sempre stato una persona piuttosto tranquilla, ma non so immaginare come mi sarei comportato se mi fossi trovato in questa situazione molti anni prima. Nel complesso, in ogni caso, credo che Fortress sia il disco più completo fatto fino ad ora. Col senno di poi, avremmo potuto dedicare un po’ più di tempo anche ad ABIII, ma come dicevamo prima, era così tanto l’entusiasmo di rimetterci a lavorare insieme che forse ci siamo fatti prendere un po’ dalla smania di avere subito qualcosa di pronto.
Qualcuno dice che ABIII sia il vostro disco minore per via dei troppi impegni contemporanei dei membri della band. Molti arrivarono ad ipotizzare che potesse essere l’ultimo capitolo per voi, anche per i richiami provenienti da Slash…
“Si sono dette tante cose e credo si tratti di un semplice gioco delle parti. Le aspettative erano elevatissime e sai bene che non c’è nulla di peggio che avere a che fare con qualcuno che idealizza te o la tua musica: basta niente per far crollare il mondo. Una cosa però è vera: le registrazioni del nostro terzo album vennero fatte in un momento delirante a livello di impegni extra. Il paradosso è che eravamo così reattivi e pieni di stimoli, che la scrittura ci riusciva naturale, quasi fossimo spinti da forze indipendenti dalla nostra volontà, ma, allo stesso tempo, lo spazio a disposizione tra un impegno e l’altro si rivelò davvero troppo esiguo per poter creare in piena libertà. È innegabile che il successo di Blackbird dovesse essere sfruttato, quindi ad un certo punto siamo stati messi di fronte alle nostre responsabilità, ma resta un po’ di rammarico legato alla troppa fretta. Riascoltato oggi, penso ancora che ABIII sia un buon disco, soprattutto grazie alla produzione di Elvis Baskette, ma avrebbe potuto essere molto migliore. Di buono c’è che abbiamo tratto il giusto insegnamento per poter comporre Fortress.”
In effetti, la prima cosa che salta all’orecchio è: non ci siamo rammolliti, anzi non abbiamo mai pestato in questo modo.
“Alla fine delle session di registrazione, quando ormai mancava solo la fase di post produzione, Mark mi si è avvicinato e mi ha detto: se volevamo dare un segno vitale, credo che non ci potesse essere modo migliore di questo. Per un po’ nessuno dirà che sarai il nuovo cantante dei Velvet Revolver. In effetti, questa volta abbiamo spinto il piede sull’acceleratore e anche le tematiche forse sono un po’ più dark che in passato. Credo si tratti solo di una fase e, probabilmente a livello inconscio, è stata proprio un’esigenza che ognuno di noi aveva dentro e ha sputato fuori con violenza. Mark è arrivato in studio con tutti questi riff potentissimi, che talvolta mi ricordano delle cose degli Iron Maiden ed è stato naturale per tutti entrare in quel mood e scrivere certi testi. E poi sai una cosa? Entrambi quando ci approcciamo agli altri impegni musicali al di fuori del gruppo dobbiamo stare un po’ alle regole, non che non facciamo quello che vogliamo, ma semplicemente ci troviamo di fronte a qualche regola in più. Qui le regole le decidiamo solo noi, perché il nostro pubblico vuole crescere insieme alla band.”
Il fatto che il disco si apra con un brano dal titolo Cry Of Achilles ha fatto tornare un po’ in auge l’idea che, con una produzione più old school, potreste essere un erede credibile di una band come i Led Zeppelin. Nome per altro accostato da anni al tuo…
“Qualcuno recentemente mi ha detto: se i tuoi dischi con gli Alter Bridge avessero la produzione di quelli con Slash sareste gli eredi perfetti di almeno un gruppo degli anni settanta. Io prendo questi come dei complimenti per i quali non riuscirò mai a dire grazie abbastanza volte, ma se bastasse una produzione differente per trasformare una band nei Led Zeppelin credo che sarebbe già successo negli ultimi trent’anni (ride, ndr). Detto ciò, non abbiamo mai nascosto il nostro amore per la band, tanto che soprattutto fino a qualche anno fa nelle nostre setlist non mancava mai una loro cover. Cose del genere, comunque, accadono una volta nella storia e credo sia sbagliato ricercare in altre band elementi che rimandino per forza di cose ad altro. Allo stesso tempo sono convinto che l’obiettivo di ogni musicista sia quellodi riuscire ad introiettare i propri idoli, le proprie influenze giovanili e renderle qualcosa di nuovo attraverso la propria sensibilità. In questo senso credo che gli Alter Bridge siano riusciti a creare un proprio personalissimo sound, ormai riconoscibile al primo riff e questa è la cosa che mi rende più orgoglioso.”
Ciò non toglie che tra voi e Jimmy Page ci sia un rapporto molto forte. Ne è la prova la recente jam session avvenuta a Parigi.
“Sì, è stata una sorpresa incredibile. Eravamo lì a presentare alla stampa il nuovo album e ci siamo ritrovati a suonare qualche pezzo insieme a Jimmy. Ti parlo da chitarrista per un momento: vedere suonare Page resta una delle cose più emozionanti che possano capitare in questo settore. Il fatto poi che negli ultimi trent’anni abbia centellinato così tanto le proprie apparizioni non ha fatto altro che aumentare quell’alone mistico che l’ha sempre circondato. È una persona che emana qualcosa di difficilmente spiegabile a parole, oltre ad essere il musicista più innovativo della storia del rock. Quando ero un ragazzino non riuscivo ad ascoltare altro, ero ossessionato da due band: i Led Zeppelin e i Queen. Ho sempre amato Brian May, credo che sia stato uno degli ultimi innovatori dello strumento, ma era chiaramente a Freddie Mercury che provavo ad avvinarmi quando aprivo la bocca. Un tentativo di cui ancora oggi un po’ mi vergogno, tanta era la mia presunzione di ragazzino. Credo che in certi casi sia giusto che queste figure restino dei semplici limiti verso cui tendere tutta la vita, in modo da non sentirsi mai arrivato.”
Si è così abituati a pensare a te come al cantante della band, che talvolta ci si scorda del fatto che tu sia un ottimo musicista. Continui ad esercitarti sullo strumento? Non credo sia facile confrontarsi con gente come Slash e Tremonti!
“Ti garantisco che psicologicamente è molto più difficile di quanto tu possa immaginare! Al di là delle battute, forse questo messaggio non è mai passato in modo chiaro: nonostante negli ultimi anni abbia ricevuto qualche apprezzamento dal punto di vista della mia voce e mi sia tolto più di una soddisfazione, io mi sento da sempre e continuerò a sentirmi un chitarrista prima e un cantante poi. E non lo dico per fare il falso modesto o per chissà quale strategia di marketing, ma perché tengo tra le mani una chitarra da molto più tempo rispetto a quello da cui canto. Sono cresciuto a Spokane, una cittadina nello stato di Washington che con il rock e la musica in generale non ha mai avuto molto a che vedere. Quando iniziai a scrivere canzoni non riuscivo a trovare nessuno che le cantasse, quindi per forza di cose ho iniziato a cantarle io stesso. Per questo ti dico che quella sorta di imprinting non mi ha mai lasciato. Credo che la chitarra sia la più grande invenzione dell’umanità (ride, ndr)”
Quanto spazio hai avuto dal punto di vista compositivo su Fortress?
“Pur amando alla follia la chitarra ed essendo anche un discreto musicista, sono ben conscio dei miei limiti, soprattutto perché ho continuamente a che fare con artisti che ne sanno qualcosa più di me…Sia Mike che Slash, comunque, sono davvero le figure più distanti al mondo dalla superstar che non ti permette di ficcare il naso nei propri affari: quando ho avuto delle idee, mi hanno sempre dato modo di esprimerle e di aiutare la causa. Anche per quanto riguarda gli arrangiamenti. Infatti puoi sentire la mia chitarra in diversi brani del disco. Quando registrammo One Day Remains il tempo a nostra disposizione era così poco che utilizzammo solo brani già scritti da Mike, perché erano gli unici pronti per essere messi su nastro. Da Blackbird in poi, invece, ho sempre partecipato a tutta la fase creativa, compresa quella musicale. Quando non vedi la mia presenza è solo perché la soluzione che avevo proposto faceva davvero schifo (ride, ndr).”
Forse mi sbaglio, ma ascoltando attentamente l’album si avvertono diversi echi che rimandano agli anni novanta, sia per quanto riguarda il tuo modo di cantare che per alcune trame sonore. Suggestione?
“Affatto e mi fa piacere che questo aspetto si avverta anche all’esterno. Tutti noi siamo in qualche modo figli di quell’incredibile periodo, che ha segnato inevitabilmente chi aveva una certa età in quell’epoca. Se la morte di Cobain portò i media e parte del pubblico a disinteressarsi in fretta di Seattle e della scena che aveva infiammato la prima parte di quel decennio, così non avvenne per chi quella musica l’aveva vissuta sulla propria pelle, ne aveva condiviso le idee e amato le canzoni. Credo che a livello creativo sia stato il momento più simile agli anni settanta, per lo meno per l’idea che ho sempre avuto di un decennio che non ho potuto vivere di persona. Tutti traevano ispirazione da tutti e vi era la sensazione di una vera e propria comunità, basata sulla condivisione di moltissime cose. Non parlo solo delle band, ma anche di chi, come me, si limitava ad ascoltarne i dischi e a produrre musica propria. Quella scintilla, in qualche modo, ha ispirato un sacco di band che poi vennero etichettate come post grunge, tra cui proprio i Creed.”
Tu stesso, vivendo non lontano da Seattle, seppur nelle forme più disparate hai sempre portato un po’ di anni novanta nei tuoi progetti e forse questo era davvero il progetto più adatto a te, anche rispetto ai Velvet Revolver…
“Il mio paese si trova a poche decine di chilometri da Seattle ed era inevitabile venire a conoscenza molto presto della nuova ventata che si diceva arrivasse dalla città. Ricordo di essere andato diverse volte a Seattle a vedere concerti e devo ammettere che quelli che mi sconvolsero maggiormente dal vivo furono gli Alice In Chains: sostanzialmente erano un gruppo metal, ma col malessere tipico della nostra generazione e che lì trovò la voce tramite alcuni dei cantanti più intensi mai apparsi sulla scena. Allo stesso tempo, il gruppo si reggeva su Jerry Cantrell, il vero mastermind della band e in questo credo che gli Alter Bridge possano ricordare un po’ quell’attitudine. Onestamente, sono un grande fan dei Velvet Revolver proprio perchè riuscirono a fondere un po’ due facce della stessa medaglia: il rock stradaiolo e apparentemente con pochi contenuti dei Guns N’ Roses e quella sorta di rassegnazione che aveva permeato la scena di Seattle.”
In effetti ho sempre pensato che Axl Rose e Kurt Cobain fossero in qualche modo le due facce della stessa medaglia…
“Ma certo, erano semplicemente due persone che esprimevano il loro disagio in modo differente, ma anche qui soltanto all’apparenza. Entrambi pieni di contraddizioni, come era normale che fosse per dei ragazzi che non erano riusciti a metabolizzare in modo sano troppi eventi e che in seguito lo star system ha definitivamente schiacciato. Erano coetanei, entrambi facevano parte di quella Generazione X di cui tanto si è tanto parlato, anche a sproposito, in quegli anni. Pensare ad Axl solo come ad un fuori di testa è ridicolo, è solo che è molto più semplice e rassicurante dividere le persone in modo netto: uno è quello sensibile, l’altro il donnaiolo, l’altro ancora il drogato.”
Quindi nessun rimpianto per non aver mai spedito quel demo ai Velvet Revolver che cercavano un cantante agli inizi del millennio?
“È una domanda cui è difficile rispondere oggi. Iniziamo col dire che quel demo non era assolutamente un granché, anzi molto probabilmente non lo spedii mai alla band proprio per quello. Mi trovavo ancora in quello stato di intorpedimento cerebrale di cui ti parlavo prima, quindi credo di non aver nemmeno dato tutto quello che avevo. Certo, parlarne dall’alto di tutto quello che mi è capitato negli ultimi dieci anni è fin troppo facile e se oggi mi trovassi in una situazione completamente diversa, molto probabilmente, ti starei raccontando una storia diversa (ride, ndr). Fatto sta che probabilmente Slash sarebbe dovuto entrare in qualche modo nella mia vita.”
Tu sei considerato il responsabile del lato più melodico della band. È una congettura che corrisponde al vero, oppure le cose stanno in modo diverso?
“In realtà sono voci che mettono in giro gli altri della band per dare a me le colpe delle parti del disco meno spinte (ride, ndr). No, al di là delle battute, è verissimo, anche se siamo tutti convinti che senza melodia la nostra musica non avrebbe alcun senso. Molti dei giornalisti con cui parlo, ma anche tantissimi fan continuano a dirmi che secondo loro sono un grandissimo screamer, che potrei fare qualsiasi tipo di evoluzione con le mie corde vocali e tante cose di questo tipo. In realtà, pur essendo lusingato dai complimenti di questo tipo, io continuo a vedermi come un cantante melodico. Sarà che vengo da un mondo completamente diverso, che sono passato dal jazz al R&B, suonato la tromba e provato ad utilizzare la mia voce sui registri più disparati, ma non credo che sarò mai un urlatore alla Bruce Dickinson o Ian Gillan, non riesco a considerarmi un cantante metal tout court.”
Cosa viene ora per voi? È il momento di un disco dal vivo?
“Potrebbe essere, visto che suoneremo in alcune delle location più suggestive d’Europa, anche se non abbiamo ancora pianificato nulla. Sicuramente registreremo tutte le date come siamo soliti fare, poi valuteremo. Se penso a quanto suoneremo da qui all’estate prossima mi sento già stanco, ma allo stesso tempo sono davvero eccitato all’idea di cantare dal vivo i nuovi pezzi. Quello che verrà dopo è difficile da dirsi e ho visto per esperienza che da sei mesi agli altri la vita può cambiare completamente. Una cosa è certa, non sarò il prossimo cantante dei Velvet Revolver!”