Reduce da quattro concerti in Italia in compagnia di Kerry Ellis, Brian May si è mostrato disponibile come sempre nel raccontarci il passato, ma soprattutto, il presente della sua musica e di quello dei Queen. Senza paura di raccontare la sua visione della vita e dell’arte.
Un’icona del rock: Brian May non ha bisogno di presentazioni, popolarissimo chitarrista dei Queen è passato recentemente nel nostro paese per quattro concerti in compagnia di Kerry Ellis. Abbiamo parlato con lui del presente ma ovviamente anche dell’ingombrante passato…
Era la prima volta che ti esibivi in Italia con Kerry Ellis, non credi che la scelta di farlo con uno show acustico avrebbe potuto essere un rischio?
Riguardo all’Italia avevo davvero pochissimi dubbi, perché ormai ho capito la sensibilità musicale del vostro paese e l’amore nei confronti di quello che faccio. Siete una delle comunità da sempre più legate ai miei progetti, sia con i Queen che da solista, quindi non mi è mai venuto in mente che potesse essere un rischio. Devo ammettere però che prima del tour precedente qualche paura ci fosse: ero sicurissimo della scelta artistica, Kerry è una cantante fantastica ed ha un animo davvero nobile, ma sai bene che per chiunque canti insieme a me o a Roger scatta immediatamente il paragone con Freddie e non volevo che la cosa potesse nuocere alla sua carriera. Abbiamo dunque deciso di partire dall’Inghilterra, in modo da capire se il progetto potesse piacere alla gente. Direi che ci siamo riusciti.
Conosci la mia diplomazia (ride, ndr)…Quindi sai bene che non ti dirò mai una cosa del genere! A parte gli scherzi, dopo la scomparsa di Freddie pensavo che avrei registrato solo album solisti e ti confesso che dopo le difficoltà avute a cantare per interi tour, ero ormai convinto che avrei realizzato solo album strumentali. Ho sempre adorato Jeff Beck e mi sono sempre sentito molto affine a lui, sia dal punto di vista musicale che umano, quindi pensavo a qualcosa del genere per la seconda parte della mia carriera. Poi però sai come vanno queste cose, come va la vita stessa: ogni giorno ti si può presentare un’occasione per cui ogni tua certezza inizia a vacillare. Dopo aver capito che non avrei mai potuto smettere di suonare, cosa che per altro in qualche momento pensai nei momenti peggiori della mia vita, realizzai anche che sarei tornato a lavorare con Roger e che comunque le mie canzoni venivano sempre scritte per essere cantate da qualcuno. Kerry è la migliore? Non lo so, davvero. Con Paul Rodgers abbiamo passato anni stupendi e, nonostante l’avventura non sia finita benissimo, credo di aver realizzato uno dei miei sogni di ragazzo. Poi c’è Adam (Lambert, ndr), anche lui giovanissimo e pieno di talento. Forse con Kerry anche il lato umano trova davvero uno sbocco che con altri non c’è.
Sarei disonesto se ti dicessi che non ci ho pensato. Quando si parla di Queen o comunque quando io e Roger suoniamo sullo stesso palco, le cose si fanno sempre molto più complicate di quello che puoi immaginare. Quella che entra in scena è una macchina pazzesca, che anche se non ha nulla a che vedere con i tour di metà anni ottanta, riesce ancora a smuovere migliaia di variabili che possono impazzire da un momento all’altro. Non penso che i fan si indignerebbero se fosse una donna a cantare un intero set di brani dei Queen, visto che in ogni caso nessuno di noi parlerebbe mai di nuovo cantante del gruppo. Voglio ribadire che quando torniamo a fare concerti non siamo mai i Queen, ma siamo un progetto che vede l’anima musicale della band unirsi ad altri musicisti per ricordare a chi non ha potuto vederci quello che sapevamo fare e per portare avanti il ricordo di Freddie. So che per alcuni avremmo dovuto smettere di fare ogni cosa, ma non si rendono conto che quando Freddie è mancato noi avevamo una quarantina d’anni e nella vita avevamo fatto solo quello. In ogni caso, Kerry per un po’ di tempo non sarebbe stata disponibile, quindi non ho potuto prendere in considerazione seriamente l’eventualità.
In ogni caso è un dato di fatto che tu non riesca a stare fermo per più di qualche settimana. Dalla scomparsa di Freddie ad oggi hai collaborato con così tanti artisti, hai portato avanti così tanti progetti che si fa fatica a capire come tu faccia ad avere le energie per fare tutto. Aggiungici laurea, libri di astronomia, l’impegno giornaliero e costante per le cause umanitarie e per gli animali: sembra che tu non possa mai fermarti. Temi che facendolo ti troveresti a dover pensare a qualcosa di doloroso?
Non ho mai nascosto di soffrire di depressione. Purtroppo appena mi fermo un attimo vengo assalito da una serie di pensieri che finiscono per bloccare completamente la mia vita. Combatto da sempre con questo problema ed essendo una malattia ciclica, ci sono periodi in cui faccio a fatica a fare anche le cose più semplici. Puoi immaginare come stia nei momenti in cui a questa cosa si aggiungono i fatti dolorosi che la vita ci porta ad affrontare. So che forse è sbagliato, ma continuare a suonare, a salire su un palco per miei progetti o per collaborazioni con altri mi aiuta ad andare avanti. D’altra parte devo però ammettere di amare la creazione di nuova musica, quindi anche questo è un fattore che mi spinge a non fermarmi mai.
Un’ultima cosa. Ancora oggi, quando si parla di Queen, molti critici tendono a storcere il naso. Credi che questa storia infinita abbia riguardato maggiormente la vostra proposta musicale o sia legata alla sessualità di Freddie?
Ho un’idea molto precisa in merito: l’unico paese dove la sessualità di Freddie ha portato la band ad avere difficoltà è stata l’America, gli Stati Uniti. Dopo il successo di Another One Bites The Dust ormai eravamo una potenza incredibile negli States, ma il video di I Want To Break Free distrusse completamente il nostro mercato in quei paesi. Che idiozia. Per il resto, è sempre stato tutto legato alla musica e nient’altro. Inizialmente dicevano che eravamo dei cloni dei Led Zeppelin e non eravamo originali, poi che eravamo troppo originali e strambi, dopo che eravamo diventati una band pop. Insomma, non sono mai riusciti a stare dietro ai nostri cambiamenti musicali e non riuscendo a comprenderli diventava più semplice dire che facevamo schifo.