Parlare dei Deep Purple nel 2013 può sembrare anacronistico, ma l’affare è un po’ più complicato. Sottostimata rispetto ad altre potenze dell’hard rock come Led Zeppelin e Black Sabbath, la band inglese è riuscita infatti a mantenere una solida credibilità grazie a concerti cui qualsiasi amante del rock ha partecipato almeno una volta. Ian Paice, che della formazione è ormai l’unico membro fondatore, è forse l’ultimo di una serie di drum heros che durante gli anni settanta hanno rivoluzionato il modo di intendere lo strumento. Se, pensando ai Deep Purple, infatti, le prime cose a venire alla mente restano le urla belluine di Ian Gillan e i riff granitici di Blackmore, è altrettanto vero che molti dei brani più celebri della band inglese contengano alcune tra le parti di batteria più studiate della storia del rock. Ecco cosa ci ha raccontato di Now What?!, ultimo album della band.
Vi ripresentate dopo otto anni con un album solidissimo, che rimanda se non al vostro periodo migliore, per lo meno a quella reunion che nel 1984 fece gridare al miracolo. La dimostrazione che i Deep Purple hanno bisogno di riflettere per creare buona musica?
Non so, è la prima volta che penso a questo aspetto nei termini che mi hai sottoposto. Mi fa piacere tu abbia parlato indirettamente di Perfect Strangers, perché una sera, finite le registrazioni, io e Gillan ci siamo scritti esattamente la stessa cosa: sembrava di essere tornati alle session di quell’album. I reduci del Mark II conservano un ricordo molto vivido di quel periodo, forse l’abbiamo addirittura idealizzato nel tempo perché fu l’ultima volta in cui anche Ritchie sembrava aver dimenticato il suo ego smisurato. Now What?! In realtà non è stato registrato in otto anni, altrimenti la gente inizierebbe a pensare a noi come a dei Guns ‘n’ Roses di settant’anni (ride, ndr). Il nostro modo di comporre è cambiato radicalmente nel tempo: una volta eravamo costretti a registrare dischi in pochissimi giorni, ma non perché avessimo più creatività o più voglia di fare, semplicemente perché le case discografiche volevano spremerci fino all’osso, convinte che non saremmo durati a lungo. Oggi, invece, entriamo in studio e iniziamo a jammare. È difficile che qualcuno entri in studio con delle idee, solo Steve ogni tanto ci porta qualche riff che ha pensato durante i tour o che ha registrato sul suo telefono mentre si trovava in mezzo alla strada o sul tour bus. Registriamo tutto e poi dalle cose migliori ricaviamo le basi da cui nascono i pezzi.
Penso che questo metodo di lavoro penalizzi in qualche misura Ian Gillan, che dovrà pensare ai testi in un secondo momento. È sempre presente alle jam o ha bisogno di estraniarsi dal contesto per scrivere?
Come sai, Ian non è l’unico cantante con cui abbia collaborato in vita mia, ma senza dubbio è quello con la proprietà di linguaggio e la facilità di scrittura più incredibile che abbia conosciuto. Ha un’inclinazione innata per i giochi di parole, per l’ironia, che ne fanno un songwriter eccezionale. Ci si è sempre soffermati sulle sue capacità canore, che obiettivamente all’inizio degli anni settanta nessuno possedeva, ma credo che sia giusto mettere in risalto questo aspetto. In studio, oltre ad improvvisare con percussioni, Ian si comporta come un rapper: mentre la band suona lui è in grado di inventare versi, talvolta intere canzoni, che poi in un secondo tempo rifinisce e ci ripresenta. Blackmore è stata una delle cose migliori che mi potessero capitare a livello lavorativo, ma non mi pentirò mai di dire che i Deep Purple sono ancora in attività grazie alla scelta di proseguire con Ian. Anche Jon Lord, che era legatissimo a Ritchie e che dopo The House Of Blue Light scelse di mandare via Gillan, rimpianse per anni quella scelta e fu il primo a rivolerlo per The Battle Rages On.
La scelta vi ha dato sicuramente ragione, anche perché la formazione con Gillan e Steve Morse si è dimostrata, a conti fatti, la più solida della vostra storia.
La cosa incredibile è che i nostri fan non sono ami riusciti a concepire la band senza Gillan, ma hanno accettato senza alcun problema l’allontanamento di Blackmore. Se ci pensi, la cosa avrebbe potuto anche non essere così indolore. In questo processo credo che Steve abbia avuto un ruolo fondamentale. Suonare con Satriani era divertente e ci sarebbe piaciuto condividere con lui almeno un’esperienza in studio, ma probabilmente in quel momento ci serviva altro. Steve ha portato una ventata di entusiasmo pazzesca, tant’è che Purpendicular fu l’album dalle vendite maggiori dai tempi di Perfect Strangers. Resta uno dei miei album preferiti dei Deep Purple.
Veniamo a Now What?!. Onestamente, erano diversi anni che ascoltando un vostro album non mi capitava di emozionarmi. Dopo l’addio di Lord la band sembrava aver perso qualcosa in studio, pur mantenendosi sempre su buoni standard. Questa volta, invece, la sensazione è che almeno un paio di brani possano diventare classici.
Diciamo la verità, l’ultimo grande classico da concerto resta Perfect Strangers e anche se mi piace pensare che gli anni ottanta non siano poi così lontani, in realtà da quel brano sono passati trent’anni. Credo che gli ultimi tre album abbiano rappresentato una sorta di climax ascendente culminato in Now What?!. Don Airey, dal vivo, ci ha permesso di proseguire lungo quel percorso iniziato alla fine degli anni sessanta, ma era impensabile che l’assenza di Jon non si sentisse in studio. Credo che parte del nuovo disco provenga da Bananas, che la stampa derise per via della copertina e da Rapture Of The Deep, sicuramente la cosa migliore che avessimo fatto con questa formazione fino ad oggi. Qui ci sono almeno tre pezzi che non vedo l’ora di suonare e che credo essere tra le cose migliori di questi anni: Après Vous, Uncommon Man e Above and Beyond. In particolare quest’ultima, col suo incedere epico e quei cambi direzione improvvisi, penso possa diventare un classico.
È un caso che gli album che mi hai citato non abbiano coinvolto la band o nessuno dei suoi componenti in fase di produzione? Michael Bradford aveva fatto un ottimo lavoro sui due dischi precedenti, ma la scelta poi è caduta su Bob Ezrin…
Senza nulla togliere a Michael, ma Bob Ezrin ha prodotto Berlin di Lou Reed e The Wall dei Pink Floyd. Non ci sarebbe mai più capitata un’occasione di questo tipo e sia noi che Bob eravamo curiosissimi di capire se questo sodalizio avrebbe portato a qualcosa di buono. Credo che difficilmente torneremo ad autoprodurci un disco, perché è sempre difficile mettere insieme le idee di tante teste pensanti. In questo momento abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia degli stimoli, che ci dica: “Questa cosa fa davvero schifo”. Quando sei tu a decidere, invece, tendi ad essere indulgente, tutto ti sembra figo, anche quando è una merda.
Oltre ad essere l’unico membro della band ad aver suonato con tutte le formazioni, sei anche l’ultimo di una dinastia di innovatori della batteria rock che ormai non esiste più. Una buna parte dei vostri fan si presenta ai concerti per sentirti rullare con una sola mano o per i tuoi soli. Perché qualche volta decidi di non fare niente del genere?
È molto semplice: dipende tutto dall’acustica e dallo strumento che devo suonare quella sera. Un solo di batteria non è un atto meccanico o qualcosa che fai per contratto. Dopo un paio di rullate capisci subito quando darai un po’ di spettacolo e quando invece le condizioni non sono ottimali. Seguo ancora molto l’istinto e se non mi sento a mio agio non riesco ad esprimermi come voglio, quindi preferisco lasciar perdere. È molto triste, ma anche luoghi creati appositamente per la musica, spesso presentano un’acustica inadeguata e il rischio è quello di sembrare ridicolo. Preferisco lasciar credere di essere snob, piuttosto che essere ricordato per un solo terribile (ride).