Flea: I Red Hot Chili Peppers Sono Tornati

L’uscita di un nuovo album della band di Californication è da decenni uno di quegli eventi ancora in grado di smuovere un mercato ormai immobilizzato da anni. Non è un caso, quindi, che ogni nuovo lavoro di Anthony Kiedis e soci venga presentato in pompa magna da discografici e promoter, vista la quantità di soldi che i quattro musicisti sono ancora in grado di far guadagnare loro. In ogni caso, pensi ai Red Hot Chili Peppers e, ancor prima che ad un singolo di successo, pensi a Flea, alle sue folli linee di basso e al suo ancor più folle colore di capelli. Flea era il punk della band e non ha mai smesso di esserlo: sempre fuori dagli schemi e con la filosofia del do it yourself ben radicata sotto la pelle. Vederlo entrare in uno degli hotel più lussuosi di Milano scalzo, senza denti e con un’evidente ricrescita grigia che si mischia al fucsia della tinta fa pensare ad un disadattato, ad un reietto. Il viso segnato da anni di abusi si nota ancor di più quando ti ritrovi di fronte quello di Josh Klinghoffer, nuovo membro della band e più giovane di lui di vent’anni. Vederli insieme a promuovere “I’m With You” è forse la migliore fotografia che la band possa mostrare in questo momento: un mix riuscito di maturità artistica e freschezza compositiva che ha condotto ad un album onesto e molto più ispirato degli ultimi due della band.

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Flea ha definito il nuovo membro della band “un virtuoso dalle palle quadrate”. Ti riconosci in questa definizione, Josh?

Josh: Virtuoso dalle palle quadrate? Be’ magari ho le palle quadrate, ma non mi sono mai considerato un virtuoso dello strumento (ride). Penso che i virtuosi siano altri, sinceramente, e non ho mai fatto più di tanto per diventarlo. Certo ricevere attestati di stima di questo tipo potrebbe farmi cambiare idea!

Flea: Io ho detto questo? Quando? Cazzo sto invecchiando davvero. Be’ se me lo dite voi ci credo, mi è già successo tante volte (ride), quindi va bene. Di sicuro ho sempre parlato bene di Josh e il suo arrivo ha dato di certo una scossa dopo i problemi che abbiamo avuto fino a due anni fa. Ormai con John suonavo a memoria, lo conoscevo come me stesso. All’arrivo di Josh ho dovuto imparare un nuovo linguaggio, scordando in fretta il passato.

Flea, sappiamo che hai iniziato a studiare pianoforte da qualche tempo. Quanto hanno influito i tuoi studi sulla composizione dell’album?

Diciamo che il mio approccio alla musica è sempre stato più istintivo che metodico, quindi non proprio da lezioni a casa nel pomeriggio… Inoltre ho una capacità innata nel dimenticare molto in fretta quello che imparo (ride). Due anni fa però mi sono iscritto al corso di teoria musicale all’Università della California, iniziando così a studiare seriamente uno strumento che mi ha sempre affascinato, il pianoforte. Più passava il tempo e mi esercitavo con ciò che mi veniva assegnato e più riuscivo ad entrare nell’ottica dello strumento, riuscendo anche a comporvi qualcosa. Quello che sentite sull’album è il risultato di questo lavoro. Studiare armonicamente le opere di Bach è stata una scoperta che mi ha folgorato.

Moltissimi pezzi del nuovo album sembrano partire con improvvisazioni. Basta ascoltare i primi dieci secondi di “Monarchy Of Roses” per rendersene conto…

Josh: Sì, è vero. Durante le session in studio abbiamo registrato ogni cosa che facevamo e alla fine ci siamo trovati con una quantità di materiale incredibile, quasi tutto frutto d’improvvisazione. A quel punto abbiamo deciso che in molti casi si trattava di ottima musica e abbiamo lasciato tutto così com’era. In effetti i primi secondi di “Monarchy Of Roses” sono pura improvvisazione che apre ad un riff alla Black Sabbath.

Flea: il nostro processo compositivo è molto democratico, ognuno fa ciò che si sente quando siamo in studio perché le cose migliori nascono in questo modo. Per “I’m With You” abbiamo fatto come sempre: alcune parti sono nate dai singoli componenti ed altre durante lunghe jam. E’ l’unico modo per continuare a divertirsi.

Attendersi da un gruppo di cinquantenni un album simile a quelli di vent’anni fa mi è sempre sembrato molto stupido. Nel caso di “I’m With You”, però, pare essersi creata un’alchimia particolare, in cui la vostra maturità artistica si è trovata a fare i conti con un musicista che trent’anni li ha ancora.

Flea: E’ vero e credo che questo sia uno degli aspetti principali dell’album. Si matura e si cresce, se non fosse così ci sarebbe da preoccuparsi, anche se a guardarmi non si direbbe (ride). Proprio guardandomi, però, puoi anche intuire come il mio modo di approcciarmi alla musica e alla composizione non sia mai cambiato. E di certo non è successo con l’arrivo di Josh.

Josh: Mi fanno molto piacere complimenti di questo tipo, ma non credo di aver avuto un’influenza tale da cambiare alcunché all’interno del gruppo.  Abbiamo vent’anni di differenza, ma lo stesso modo di sentire quello che facciamo, quindi l’intesa è stata immediata. Problemi però ne ho avuti. Considerate che per me prendere il posto di John Frusciante nella band non è stato semplicissimo: John è un amico, ho suonato con lui in studio e dal vivo, abbiamo registrato album insieme. Avevo già lavorato anche con la band in passato, ma farne parte a tutti gli effetti è un’altra cosa. Ho dato il massimo, spero si possa avvertire e che possa durare il più a lungo possibile.

Va detto, però, che i cambi di chitarristi, più o meno volontari, hanno sempre fatto molto bene ai dischi della band. Non temi già per il tuo futuro?

Josh: Oddio, se la metti così mi viene l’ansia (ride). Diciamo che voglio crederci ancora per un po’!!

Flea: No oramai è diverso! La realtà dei fatti è che in questo caso siamo noi a temere che Josh se ne vada da un momento all’altro!

Flea hai detto di essere tornato profondamente cambiato dopo l’esperienza in Africa…

Sì dopo essere stato in Africa la mia vita è cambiata: per loro la musica ha un legame strettissimo con la religione e hanno strumenti magnifici. “Ethiopia” infatti risente di questa esperienza. Logicamente, più che a livello musicale, sono rimasto sconvolto dalla situazione socio economica. Quando sento parlare di crisi economica negli States mi incazzo immediatamente. Santo Dio, quelli sono paesi in crisi, luoghi dove i bambini muoiono di dissenteria, non un impero dove crollano delle fottute borse.

Brendan’s Death Song parla di una storia legata alla band e sembra un po’ il fulcro attorno cui ruota tutto l’album. Come è nata?

Flea: Il pezzo è dedicato a Brendan Mullen, storico proprietario del Masque di Los Angeles che per primo ci diede fiducia, facendoci suonare quando non eravamo nessuno. Abbiamo saputo della sua morte mentre ci trovavamo in studio per iniziare a lavorare al disco e così è stato il primo pezzo ad essere composto insieme a Josh. Tutte le altre canzoni sono nate sull’onda di quella notizia.

Cosa vedi se guardi al tuo passato, al vostro passato? E per il futuro cosa ti aspetti?

Flea: Sono felice, sono cresciuto insieme agli altri componenti della band. Se penso a quando andavamo in giro strafatti come dei cazzoni senza pensare al futuro, non riesco a capire come abbiamo fatto ad essere ancora qui. Forse abbiamo degli angeli custodi molto competenti! Niente psichiatri, santoni o guru avrebbero potuto fare un lavoro migliore. Di sicuro sono ancora un fottuto hippie, che ricerca la musica proveniente da un luogo divino, pur non essendo assolutamente religioso. Farei più fatica a parlarti del nostro futuro, non so se passeranno altri cinque anni prima di un altro album, non so nemmeno quello che farò domani. Posso dirti però che abbiamo voglia di suonare e abbiamo già scelto i brani che formeranno l’ossatura del tour.

John Frusciante si rifiutava di suonare brani di album in cui lui non aveva suonato, come quelli di “One Hot Minute”. Josh, pensi di recuperare brani che non sentiamo da anni?

So che nemmeno gli altri della band amano particolarmente suonare i brani di quell’album…E potevo capire le difficoltà di John, ma per me la cosa è diversa: quello fu il primo disco che comprai dei Red Hot Chili Peppers e il tour successivo il primo in cui li vidi suonare. Quindi lo recupererei senza pensarci un secondo!

Tu Flea sei sempre stato il punk del gruppo. Come fai a conciliare la tua anima con il fatto di navigare da anni nel music business, mantenendo allo stesso tempo la tua integrità?

Non è difficile farlo, l’importante è che quello che hai dentro, il tuo modo di intendere la vita e la musica non cambino per motivi diversi dalla tua voglia di esplorare nuove strade o dal fatto di crescere. I soldi piacciono a tutti, non facciamo gli ipocriti, ma io continuo ad ascoltare e a suonare ciò che amo e a fare ciò che voglio. Logicamente so di avere anche più fortuna di tanti gruppi punk che ascolto, che non hanno tour negli stadi programmati per il prossimo anno. Come so di avere responsabilità nei confronti di chi mi ascolta.

La copertina di “I’m With You” di ha scatenato una serie infinita di ipotesi sul significato dell’immagine che avete scelto.

Flea: Sì, abbiamo chiesto al nostro amico Damien Hirst di creare la copertina dell’album ed ha fatto un grande lavoro. Non gli abbiamo chiesto nulla di particolare, né tanto meno un’immagine con un significato preciso. Credo si tratti di arte di grande qualità e come tale è inevitabile che ponga delle domande.

Josh: Devo ammettere che più che la mosca posata sulla pillola, credo sia tutto il bianco che la circonda a colpire chi la guarda. Non potrò mai sapere se fosse questa l’intenzione di Damien, ma per lo meno è una prospettiva diversa dal solito!

E se i Red Hot Chili Peppers fossero una pillola, quale sarebbero?

Flea: Non ho dubbi, sarebbero un acido.