“Tutto nasce dal ritmo: è la base del feeling di ciò che suoniamo. Noi vogliamo che la gente riesca a sentire fisicamente l’energia che sprigioniamo. Vogliamo che ingoi ogni singolo watt!!”. Questa frase di Angus Young rappresenta forse meglio di ogni altra la filosofia musicale (ma se vogliamo, anche di vita) degli AC/DC, un gruppo senza il quale il mondo sarebbe di certo meno bello: difficile infatti immaginare la storia del rock senza i riff di Malcolm, il duck walk di Angus, le urla di Brian Johnson o i testi scollacciati e lascivi di quel genio pazzoide di Bon Scott; come altrettanto ardua sarebbe l’impresa di trovare una band capace di mettere d’accordo un pubblico tanto eterogeneo, che vede uniti rocker incalliti, metallari oltranzisti e famiglie, senza essersi mai venduta alle tendenze o ai suoni che andavano per la maggiore al momento della pubblicazione di un album; una band che ha fatto della coerenza il proprio marchio di fabbrica e che, dopo tanto tempo, è ancora credibile ed in grado di trasformare qualsiasi cosa in evento, anche l’uscita di un dvd in un momento critico come questo per la discografia mondiale. In effetti, la premiere mondiale di “Live At River Plate”, tenutasi all’Hammersmith Apollo di Londra lo scorso 6 maggio, è stata in grado di spiegare bene quasi quarant’anni di AC/DC attraverso quello che il gruppo ha saputo fare meglio in queste decadi: suonare dal vivo. Per l’occasione una scenografia quasi holliwoodiana ha adornato una delle venue più celebri della città, con i classici cannoni pronti ai saluti e la Hell Bell appesa all’ingresso, quasi ci si trovasse ad un vero e proprio concerto e non ad una semplice proiezione. La presenza della band, pronta a parlare del proprio presente, ma soprattutto del proprio futuro, ha fatto il resto: traffico bloccato e fan in delirio ai bordi di un red carpet diventato black per l’occasione. “Torneremo presto ad esibirci” – confermano Angus e Brian ai cronisti accorsi da mezza Europa – “e stiamo lavorando al successore di Black Ice. Io e Malcolm stiamo lavorando ad alcuni riff, niente di definitivo ma la strada è quella buona” – aggiunge poi un adrenalinico Angus, per l’occasione in un inaspettato borghese.
In pratica quello che tutti volevano sentirsi dire, anche perché ormai le attese infinite tra un disco e l’altro non potrebbero più essere sostenute dall’età e dagli inevitabili acciacchi di questi musicisti che, pur confessandolo a fatica, i cinquanta li hanno superati da tempo. “Durante l’ultimo tour ho avuto qualche problema fisico, in particolare alle gambe, ma quando salgo sul palco dimentico ogni cosa” – continua il chitarrista, mentre il singer conclude: “Non vogliamo che la gente venga a vederci e dica che una volta eravamo il miglior gruppo live del mondo, vogliamo semplicemente continuare ad esserlo”. I quarant’anni di attività sono alle porte e quale modo migliore di avvicinarsi ad una data così importante se non quella di pubblicare un nuovo live, frutto di una delle migliori tournée dai tempi di “Razor’s Age” e che ha portato il gruppo a realizzare una serie successiva di sold out da far invidia agli Stones. La scelta di pubblicare una delle date deI Monumental River Plate Stadium sembra quasi un risarcimento nei confronti dei fan argentini, che hanno dovuto attendere ben tredici anni per poter rivedere nel proprio paese i fratelli Young, ma qualsiasi location su cui fosse caduta la scelta sarebbe stata ugualmente calda, tanta era la voglia di rivedere on stage la band dopo un lasso di tempo davvero prolungato. Diretto da David Mallet (lo stesso di Pulse dei Pink Floyd e del controverso video di I Want To Break Free dei Queen), prodotto da Rocky Oldham e filmato con ben 32 telecamere HD, ‘Live At River Plate’ ci riconsegna esattamente quello che fecero i vari Donington, Plaza De Toros e affini: una band sempre uguale a se stessa, compatta e dal tiro micidiale, oggi come ieri. L’entusiasmo e la gioia mostrata dai fan provenienti da tutta Europa per una semplice proiezione, seppur presentata da un divertito Ozzy Osbourne direttamente dal salotto di casa sua, rende bene l’idea dell’energia che il gruppo è ancora in grado di sprigionare, tanto da arrivare a chiedersi come sia possibile che nel 2011 un semplice filmato possa scatenare tutto ciò. Che vada ricercato qui il motivo per cui l’annuncio di un nuovo tour degli AC/DC sia ancora in grado di smuovere gli animi, tanto da farlo diventare già in partenza, l’evento dell’anno? O il segreto nascosto dietro al fatto che un concerto dalla struttura e dalla scaletta pressoché identica da oltre trent’anni riesca ancora ad attirare come api al miele centinaia di migliaia di persone di ogni razza e cultura? E che ruolo ha giocato Bon Scott in tutto questo? Ancora prima di l’album di debutto, i rockers australiani avevano già ben chiaro nelle proprie teste che l’unico modo per farsi conoscere al di là dei propri confini sarebbe stato quello di suonare incessantemente e dovunque se ne creasse l’occasione: fossero queste bettole di terz’ordine o luoghi al limite della decenza non faceva differenza, l’importante era fare in modo che il nome del gruppo iniziasse a girare. Dopo un primo periodo con l’insipido Dave Evans alla voce (e un tour di supporto ai Black Sabbath interrottosi bruscamente con una rissa tra Geezer Butler e Malcolm) giunse il momento della svolta: Bon Scott, assunto come autista dalla band e con un passato di discreto successo con i Valentines, si proprose come lead singer, aggiungendo l’ultimo ingrediente (la follia) ad un combo pronto ad elettrizzare il mondo. Se infatti prima dell’arrivo di Bon i momenti migliori erano quelli in cui Evans scendeva dal palco, da qui in poi fu impossibile non parlare dei live act di un gruppo che faceva dell’ implacabile sezione ritmica la propria base sonora, sulla quale si innestavano le piroette, non solo musicali, di un ragazzino vestito in modo strambo e di uno dei più grandi animali da palcoscenico che la storia del rock ricordi.
La leggenda vuole che Scott, all’esordio con la band dopo appena un’ora di prove, si fosse scolato due bottiglie di bourbon, riempito di marijuana, cocaina ed altre sostanze stupefacenti e avesse iniziato a scorrazzare per il palco con addosso le mutande di sua moglie, regalando ai presenti uno show davvero difficile da dimenticare. Il cantante, di età maggiore rispetto a quella dei compagni, ebbe un’influenza incredibile su tutti i componenti del gruppo, riuscendo a tirar fuori da essi un’aggressività già esistente, ma fino ad allora rimasta latente. Tutto ciò, oltre a portare miriadi di groupies ad ogni data della band, finì per causare anche qualche problema di ordine pubblico, con show che spesso finivano in risse sfrenate, dalle quali il cantante non fu mai visto prendere le distanze. Con l’andare del tempo e la pubblicazione di album in grado di cogliere appieno la tensione sprigionata durante i loro show, la fama del gruppo crebbe in maniera esponenziale, riuscendo a conquistare l’Europa, ma soprattutto la più ostica America. La prima (ed ultima) testimonianza su disco dell’energia sprigionata sul palco dalla formazione originale rimane “If You Want Blood You Got It”, pluripremiato album che segna il passaggio ideale tra un periodo e quello successivo della band. La tragica fine di Bon Scott, quando il nuovo “Highway To Hell” stava scalando le classifiche mondiali di vendita, mise infatti la parola fine a qualcosa che nessuno può immaginare dove sarebbe arrivato, ma che di certo non fermò il rock ad alto voltaggio del gruppo, anzi ne consolidò il mito. Brian Johnson e “Back In Black”, omaggio della band al vecchio amico fecero il resto: l’album hard rock più venduto della storia trasformò totalmente le esibizioni di una band che ormai aveva raggiunto lo status di leggenda e alla quale iniziava ad andar stretta qualsiasi venue che non fosse uno stadio. Anche a livello scenico le cose iniziarono inevitabilmente a mutare: se in passato la band aveva sempre rifiutato il fatto che l’elemento principale di un live potesse non essere la musica, negli anni ottanta la filosofia cambiò radicalmente, riuscendo però a mantenere intatte le caratteristiche che ne segnarono gli esordi.
I budget faraonici permisero così alle campane, ai cannoni e alle riproduzioni gigantesche dell’artwork delle copertine dei dischi di diventare a tal punto fondamentali, da sentirci truffati se non le trovassimo sul loro palco. Ad onor del vero, nell’arco di trent’anni la discografia del gruppo ha subito un’inevitabile flessione, senza però intaccarne minimamente la potenza on stage o la fama, che al contrario ha continuato a crescere senza ostacoli. I tour sempre più imponenti in ogni angolo del globo hanno permesso al gruppo di infrangere ogni record precedente: l’esempio più eclatante rimane probabilmente Castle Donington, visitato da headliner per ben quattro volte, impresa mai riuscita ad altri gruppi nella storia. Proprio in una di queste occasioni, nel ’91, venne registrato il secondo live ufficiale della propria carriera, il primo con Jonna dietro al microfono e giusto tributo ad una band cambiata moltissimo dagli esordi, ma che non ha perso l’ironia e la voglia di divertirsi che caratterizzarono la vita di Bon Scott. Per capire quanto il fantasma di Bonnie aleggi ancora sulla band, basta dare un occhio alle scalette, anche le più recenti: una buona metà dei pezzi proposti provengono proprio dagli anni settanta. Innumerevoli gli episodi divertenti o singolari avvenuti nel corso degli anni, alcuni dei quali assolutamente degni di nota, ma impossibili da elencare con precisione. Tra i più esilaranti, la volta in cui a Mosca un distratto Brian Johnson finì per urinare sui resti dello Sputnik o quella in cui Cliff Williams decise di partire per uno dei tanti tour a bordo di una macchina appena acquistata, ma senza aver fatto prima un’adeguata revisione…Altre storie, invece, rendono bene l’idea della passione che ancora anima i membri della band e il rispetto nei confronti del proprio pubblico. Nel corso dell’ultimo tour, Angus si ruppe una costola durante una delle proprie peripezie, continuando però a suonare senza saltare una data e senza che nessuno si accorgesse di nulla, mentre pochi giorni prima, un Brian pieno di acqua nei polmoni era stato “riportato in vita” da una non specificata “medicina”, passatagli da un medico in possesso dei biglietti per lo show che rischiava la cancellazione. Insomma, ora come allora, it’s a long way to the top if you wanna rock n roll…