Avere la possibilità di intervistare i Queen è sempre qualcosa di straordinario, poterlo fare poi in occasione del quarantesimo anniversario della band assume le dimensioni del sogno ad occhi aperti. Non è facile confrontarsi con una storia così lunga e complessa come quella della band inglese, tanto che spesso ti trovi a chiederti: cosa posso domandare ad artisti che hanno segnato la storia della musica in maniera così massiccia? La disponibilità di Brian e Roger, come sempre, ha fatto la differenza: rilassati ed amichevoli, i due si sono prestati a ricordare qualche episodio di questi quarant’anni presso quei Trident Studios che qualcosina della storia del rock conoscono…
Ci sono molte novità intorno ai Queen in questo periodo: una mostra sui vostri esordi, il vostro catalogo è stato acquistato da Universal Music e rimasterizzato e in più quest’anno ricade il vostro quarantesimo anniversario. Brian, da quale momento si parte con il conteggio degli anni?
B: Credo che la maggior parte delle persone, compresi noi, identifichino l’inizio vero e proprio della band con l’arrivo di John Deacon. Quindi possiamo dire che il conto parta da lì, dall’arrivo di John.
Brian, la mostra è intitolata “Storm Troopers In Stilettos”, che è una sorta di sottotitolo della canzone “She Makes Me” sul vostro terzo album “Sheer Heart Attack. “Storm Troopers In Stilettos”…Di che cosa stiamo parlando?
B: Il titolo me lo suggerì Roger mentre stavamo registrando quell’album, ma non mi convinceva. Decisi così di dargli un altro titolo, “She Makes Me”, appunto, e decisi di mettere il suo suggerimento tra parentesi. Perché abbiamo chiamato così la mostra? In primis, perché parla dei nostri esordi e per la prima volta mostrerà al pubblico aspetti poco noti della nostra vita ai quei tempi. Poi, perché rappresenta un po’ un un gioco di parole se vogliamo o meglio un paradosso, che ci rappresenta molto bene. Facevamo musica molto potente, molto aggressiva, ma portando avanti idee e liriche spesso di tutt’altro tipo.
Parlando ancora della mostra, guardando quelle vecchie foto che emozioni avete provato? E’ tutto come lo ricordavate?
R: Partecipare all’inaugurazione mi ha provocato un mix di emozioni contrastanti, sia io che Brian ci siamo trovati di fronte a foto in alcuni casi mai viste, ma soprattutto ci ha messo di fronte a ciò che eravamo e che inevitabilmente non siamo più. Insomma, rimane l’orgoglio e la gioia per una carriera a cui non potevamo chiedere di più, in cui siamo stati amati alla follia dai nostri fan, ma anche un po’ di nostalgia. Inoltre, riguardando solo i primi cinque album della nostra discografia, il confronto è stato ancora più impietoso.
B: Entrare alla mostra e trovarsi di fronte a tutte quelle foto devo ammettere che mi ha davvero emozionato. Molte cose le conoscevo, visto che provengono dalla mia collezione privata…Le vere emozioni le ho provate nel vedere foto inedite o di cui avevo perso il ricordo. In particolare una foto rarissima scattata durante le session di “A Day At The Races”, che mi ha riportato in una frazione di secondo indietro di trentacinque anni. La cosa più emozionante, e allo stesso tempo dolorosa, è stata però rivedere persone che oggi non ci sono più e non mi riferisco solo a Freddie. Anche il fatto di vederle insieme a mia moglie mi ha emozionato, anche perché lei non ha vissuto quel periodo al mio fianco e fa impressione pensare a quanto fossi giovane e a quanto ora non lo sia più. Poi, se ci pensi, queste celebrazioni di solito si fanno per i morti, quindi sia io che Roger abbiamo avuto qualche difficoltà. Vuol dire che ormai siamo da museo.
Ci sono state delle cose che avete trovato difficile ricordare, magari perché troppo emozionanti?
B: Vedere foto di Freddie emoziona sempre, ma da un certo punto di vista siamo abituati a vederne giornalmente e, in fin dei conti, siamo stati accanto a lui fino alla fine dei suoi giorni. Ho avuto più difficoltà nel vedere foto di altre persone a noi molto vicine ai tempi e che ora non ci sono più.
R: Sì, quello è stato davvero provante. Allo stesso tempo, tuttavia, per vederla da un altro punto di vista possiamo dire che rivederli sulle foto è come se li rendesse in qualche modo immortali.
B: È stato strano ritrovarsi di fronte a foto che ci ritraggono molto giovani, perché mettono in risalto quanto non lo siamo più ora. Vedere quanto fossimo magri e molto più giovani dei nostri stessi figli oggi soprattutto. Insomma, vederci in quel contesto e pensare a quello che abbiamo fatto ci inorgoglisce, ma ci fa anche riflettere su tante cose.
R: Le foto mettono bene in evidenza quanto fossimo poveri ai tempi, senza soldi per poterci comprare degli strumenti di un certo tipo, ma anche solo per il cibo. Ogni pasto diventava l’obiettivo primario della giornata!
Roger, tu sei uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ma sappiamo che se non lo fossi diventato, avresti avuto un futuro da dentista…
R: Se devo essere sincero, non ho mai voluto diventare davvero un dentista (ride). Forse la mia famiglia lo desiderava, ma il fatto che già mia sorella fosse diventata medico mi ha aiutato a prendere un po’ di tempo e ad avere meno pressioni. Quando mi trasferii a Londra per frequentare il college, nella testa avevo una solo idea: conoscere ragazzi e formare una band, nient’altro. Ai tempi, Londra era il centro del mondo da questo punto di vista, quasi tutte le più grandi band sono nate lì, anche Jimi Hendrix venne qui per trovare il successo che in America non arrivava. Insomma, quello del dentista era il classico pretesto di un ragazzo che voleva realizzare il suo sogno: continuo a credere sia un lavoro davvero orribile da fare.
Che tipo di band eravate nel 1971? Avevate già una visione musicale ben precisa?
B: Più che altro avevamo un’idea nelle nostre teste, ma che ancora non si era potuta realizzare sul campo. Avevamo degli eroi musicali: c’era Hendrix, che era un idolo per ognuno di noi, poi i Led Zeppelin, che erano nostri contemporanei ma che erano già in grado di influenzare ogni band che si formava in quel periodo. Gli Yes ci piacevano molto e devo dire anche gli Who, per via di certe loro armonie che mi piacevano moltissimo.
Parlaci di Freddie, era sempre lo sfavillante showman che siamo abituati a ricordare?
R: Il pubblico lo ricorda come la rockstar che ha conosciuto, in realtà Freddie era molto timido e riservato. Per riuscire a fare quello che faceva utilizzava una sorta di travestimento e forse tutto iniziò quando cambiò il proprio nome da Bulsara a Mercury. Di sicuro è stato un esempio incredibile di self made man: aveva dei sogni, dei desideri e ha fatto di tutto affinché si realizzassero. E ci è riuscito.
Ripensando a quegli anni, avreste mai immaginato che i Queen avrebbero avuto un impatto così forte sulle generazioni future e sulla musica popolare? Tanto da parlarne in questi termini dopo 40 anni?
B: Ti dico la verità, a volte mi sembra tutto un sogno, un magnifico sogno da cui mi devo svegliare da un momento all’altro. Altre volte penso che siamo stati fortunati, ma non sarebbe giusto nemmeno pensare questo, perché ci abbiamo messo anche del nostro. Ad ogni modo, la fortuna serve e magari prima o poi mi sveglierò..
I vostri primi cinque album (Queen, Queen II, Sheer Heart Attack, A Night At The Opera, A Day At The Races) sono appena stati ristampati e rimasterizzati, con l’aggiunta di bonus track. Parlaci del primo di questi album, registrato proprio qui ai Trident e per lo più di notte…
R: Sì, registrammo il primo album proprio in questi studi, di notte, quando David Bowie lasciava liberi gli studi. Avevamo pochi soldi, quindi dovevamo arrangiarci come potevamo. Non credo fossero gli studi adatti per noi, o almeno parlo dal mio punto di vista. I suoni della batteria non erano adatti al nostro sound, erano troppo sordi.
B: Mi ricordo che registravamo i nostri brani dalle due alle sei della mattina, dopo che David lasciava gli studi. Lui era già una rockstar e noi sfruttavamo i momenti in cui lui e la sua band non lavoravano. Non fu facile lavorare in quelle condizioni e Roger aveva problemi con i suoni della batteria, ma alla fine ci riuscimmo.
Roger, le bonus track del primo album suonano diversamente da come le conoscevamo. Qual è la loro storia? Perché furono registrate?
R: Abbiamo registrato queste tracce prima ancora di avere un contratto discografico.
B: Questi pezzi furono registrati ai De Lane Studios, vicino a Wembley, prima delle sessioni ufficiali del primo album. Eravamo giovani, senza soldi e pieni di sogni, quindi fummo fortunati a trovare una persona come il proprietario degli studi, che ci permise di utilizzarli per registrare qualche pezzo. Registrammo tutto in un paio di giorni.
R: Nei De Lane Stusios abbiamo avuto la possibilità di servirci di nuove tecnologie, che ci hanno permesso trovare nuovi suoni. E’ stato fantastico e credo suonino meglio queste che quelle che poi registrammo per l’album.
Mi interessa molto sapere come fosse Freddie in studio: era lo showman che tutti conoscono o durante le registrazioni era diverso?
B: Era scioccante constatare la differenza tra l’uomo in studio e il performer che poi saliva sul palco. Durante le registrazioni era molto disciplinato, quasi maniacale nel riascoltarsi in continuazione e nel ripetere le stesse tracce alla ricerca della perfezione.
Parlando ancora dei primi cinque album, sono stati rimasterizzati da Bob Ludwig…Perché avete scelto proprio lui?
B: Abbiamo contattato otto studi differenti di masterizzazione, fino a quando la scelta è ricaduta su quello di Bob. Gli abbiamo mandato del materiale e ci è piaciuto moltissimo il suo lavoro sui pezzi. L’abbiamo ritenuto il migliore e quindi la scelta è ricaduta su di lui.
Roger posso chiederti come avveniva il processo di registrazione di un album dei Queen? Ognuno di voi quattro arrivava in studio con le canzoni e gli arrangiamenti già pronti?
R: No, non avveniva mai in questo modo. Nessuno arrivava mai con un prodotto finito in studio, ma ognuno portava le proprie idee, che poi venivano sviluppate insieme.
Roger è vero che le discussioni in studio nascevano sempre tra te e Brian e che a Freddie toccava il ruolo di mediatore?
R: Freddie era una persona molto diplomatica, il che aiutava. Devo dire però che alla fine si arrivava sempre a risolvere i piccoli problemi che potevano nascere tra noi. Di solito si raggiungeva un compromesso in grado di far proseguire il lavoro in brevissimo tempo.
Avendo come front man Freddie Mercury, i concerti dovevano sempre essere spettacolari o avere elementi teatrali al loro interno?
R: Freddie amava un certo tipo di teatralità e di spettacolarità negli show e ci riusciva alla grande. Probabilmente fu influenzato anche dal lavoro di David Bowie, che agli inizi fece della teatralità una delle sue armi migliori.
Quando uscì il vostro primo album, la gente capì i Queen? Voi eravate coscienti di chi foste?
B: Quando uscì il nostro primo album, penso rappresentassimo qualcosa di nuovo. Ieri come oggi la smania di inserire un gruppo in un filone musicale fece sì che venissimo etichettati come un gruppo glam o hard rock, a seconda dell’occasione. Credo che in realtà fossimo un mix di più generi musicali.
Ho sempre pensato che ai vostri esordi la stampa non vi capisse…
B: Il rapporto con la stampa non fu idilliaco all’inizio, ci furono incomprensioni che pregiudicarono un po’ le cose inizialmente. Così noi finimmo per non avere tempo per loro e viceversa.
R: Inizialmente non era facile inserirci in una categoria specifica, eravamo un mix di diverse cose. Quindi per la stampa non fu facile inserirci in un filone preciso e ciò di sicuro non aiutò il loro lavoro. D’altra parte, riuscimmo ad avere il pubblico dalla nostra parte, quando ancora la critica non aveva capito cosa proponessimo e sapete bene che spesso essere popolari viene associato al concetto di mancanza di qualità. Questo però è stato il vero segreto di quarant’anni di successi.
B: Il problema era che non eravamo facili da etichettare e la stampa era sempre pronta a giudicare ogni nostro passo, a giudicare ogni piccola mossa. E di solito non in modo positivo.
Brian, Queen II raggiunse il quinto posto in UK e entrò nella top 50 in America, dove firmaste un contratto con l’Elektra. Le cose però iniziarono davvero a girare con il terso album, Sheer Heart Attack, che raggiunse il secondo posto in UK e il 12 negli States, alla fine di un tour che ebbe ripercussioni sulla tua salute…
B: Sì, è vero, mi ammalai di epatite, ma quello non fu il vero problema, perché mi curai per quella malattia e tutto sembrava risolto. In realtà, poco dopo ebbi quella che sembrava una ricaduta, collassai mentre suonavo e tutto sembrava ricominciato da zero. Scoprimmo che il problema era causato da un batterio, l’elicobacter, che avevo dentro di me da tanto tempo, ma nessuno si era mai accorto della cosa. Fu un periodo davvero difficile, ma alla fine, scoperto il problema tutto andò per il meglio.
Sheer Heart Attack suona ancora come un album speciale…
B: Sì, lo fu senza dubbio. Fu quello con cui ottenemmo i primi veri successi, poiché era un mix perfetto tra le stravaganze del secondo album e il lato più commerciale della band. Credo sia davvero un grande album.
Una volta qualcuno definì A Night At The Opera il vostro Sergent Pepper. Sei d’accordo Roger?
R: Come ho già detto in altre occasioni, non ritengo il nostro quarto album il migliore di quegli anni, come non ritengo Sergent Pepper essere il migliore dei Beatles. Gli ho sempre preferito “Revolver” o il “White Album”, ma si tratta anche di una questione di gusti. Di certo delle analogie ci sono, per lo meno per il modo di concepire il lavoro in studio: creare qualcosa senza preoccuparsi del fatto che dal vivo non potesse essere riprodotto. Mi riesce comunque difficile darti una risposta definitiva.
Avete parlato di “Bohemian Rhapsody”…è giunto il momento di chiederti qualcosa sulle armonie particolari presenti su quella canzone…
B: Ho sempre avuto una passione per le armonie, fin dagli esordi. Amavo moltissimo i lavori di Mantovani, che mi hanno influenzato davvero tanto nel corso della mia carriera. Amavo diversi stili, ma soprattutto la capacità di alcuni gruppi di fare della semplicità una risorsa.
I Beach Boys vi influenzarono?
B: I Beach Boys ci piacevano, soprattutto Freddie li adorava. Non credo però che ci abbiano influenzato più di tanto. Penso più che altro ad altri gruppi, in particolare ai Beatles. Loro erano l’esempio per tutti ai tempi. Poi sicuramente gli Who, che rappresentavano qualcosa di davvero diverso e innovativo.
Negli anni diventaste popolarissimi in USA, Capitol Record vi mise sotto contratto, ma dopo “The Works” iniziò il vostro declino…Ti sei fatto un’idea di quello che successe?
B: Gli Usa ci diedero da subito grandissime soddisfazioni, sin dai primi album. La Capitol ci mise sotto contratto e i nostri album vendevano benissimo. L’apice fu “Another One Bites The Dust”, che raggiunse la prima posizione di Billboard. Poi dopo il video di “I Want To Break Free” le cose cambiarono, i nostri album uscirono dalle classifiche di vendita senza tornarci per decenni. Fu la fine di tutto.
L’America ebbe quindi problemi con la sessualità di Freddie?
B: La parola G-A-Y in America in quegli anni era considerata una sorta di tabù e veniva usata solo con un’accezione negativa o meglio, dispregiativa. Non aveva altre valenze.
Avete deciso di andare avanti anche dopo la morte di Freddie…ne avete discusso per molto tempo prima di prendere questa decisione?
B: Quando Freddie morì, pensavo la partita fosse finita. In principio anche solo l’idea di andare avanti non mi passava nemmeno per la testa e non volevo si parlasse di me come membro dei Queen. Avevo un vero e proprio rifiuto nel confronto del mio passato. Poi decisi di proseguire da solo, sia in studio che in tour. Dopo un po’ di anni, ma soprattutto dopo aver metabolizzato la cosa, ci rendemmo conto che non potevamo parlare da ex membri dei Queen, perché lo eravamo ancora! Inoltre le manifestazioni d’affetto continue, il musical che da subito diede risposte eclatanti e la voglia di tornare a suonare insieme ha fatto il resto…
Quali sono i vostri piani futuri? Universal vi ha chiesto di promuovere in qualche modo quest’anniversario?
B: Penso che faremo un concerto insieme ad una serie di amici, che si alterneranno alla voce e ricorderanno Freddie insieme a noi. Un po’ come nel ’92, ma in un altro contesto, molto più raccolto e molto probabilmente per la BBC. Non abbiamo ancora niente di preciso in mente, ma solo un’idea del progetto. Ad essere sincero, non sento un bisogno immediato di suonare a nome Queen, se capiterà l’occasione più che volentieri, ma niente progetti a lungo termine.
R: Abbiamo appena cambiato casa discografica e il catalogo, oltre ad essere rimasterizzato, conterrà molte bonus track. Succede spesso così in questi casi. Se parliamo di inediti del passato, utilizzammo quasi tutto per “Made In Heaven”, ma posso dirvi che abbiamo iniziato a lavorare su alcune splendide canzoni registrate da Freddie e Michael Jackson a metà degli anni ’80.
Ora che sono qui con te Brian, devo chiederti perché John Deacon non è stato coinvolto in tutto questo…
B: John è sempre stato il più tranquillo dei quattro, fin dagli esordi. Non amava apparire e, quando Freddie morì, decise che per lui la partita era finita. Ha lavorato ancora con noi per Made In Heaven e su qualcosa negli anni appena successivi, poi ha deciso di ritirarsi. In ogni caso, ha sempre approvato tutto quello che abbiamo fatto senza di lui, come noi abbiamo fatto con la sua scelta.
Come riuscite a portare avanti tutti questo, considerato che è da vent’anni che non avete un front man fisso?
Per andare avanti è servita una grande forza di spirito e spesso io e Roger ci siamo trovati a discutere su molti aspetti del nostro lavoro. Alla fine, però, è talmente grande l’amore per quello che facciamo e che portiamo avanti, che riusciamo a superare questi problemi. Cerchiamo di andare avanti con lo spirito che ci ha sempre contraddistinto fino ad oggi.
Siete orgogliosi del fatto che così tante band, così tanti artisti siano stati influenzati dalla vostra musica?
R: Sì, siamo molto orgogliosi di questo. Tutti abbiamo avuto delle influenze ed è bello pensare oggi di esserlo stati a noi volta per altri.
B: Sì, è molto bello sentire che abbiamo significato così tanto per così tante persone. Il fatto che molte band abbiano fatto nostre cover o venire citati come loro fonte di ispirazione è una cosa di cui siamo molto orgogliosi.
Per finire cosa ha significato per voi essere un membro dei Queen?
B: Sono orgoglioso di quello che siamo stati, di quello che abbiamo fatto e di quello che siamo oggi.
R: è stata la cosa più importante che abbia fatto in vita mia e tutti gli altri aspetti di essa hanno girato intorno a questo.
B: Il classico sogno diventato realtà.